Il grande default

Il grande default

feneal
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Se il cosiddetto Salva Roma sia o no una partita di giro, cambia poco. Non è questo il punto. Forse finiranno davvero per vendere Roma agli asiatici e Pompei ai tedeschi, per la felicità della troika. Il punto è che il bilancio della Capitale d’Italia – per inettitudine di intere generazioni di politici, alti dirigenti e capitani d’impresa incapaci di vedere oltre il business degli appalti pubblici, dell’emergenza cronica e degli eventi eccezionali – si trova di fatto sotto commissariamento in un Paese che ha già sperimentato e comprovato, per via empirica, che i commissariamenti non funzionano, non risolvono i problemi e spesso, laddove possibile, li aggravano. Il punto è che il default non una questione contabile e di danari, o almeno non solo.
Come sindacato territoriale di categoria, il default lo misuriamo da tempo nella disoccupazione galoppante, nello scadimento delle tutele riservate al lavoro, nella sorda indifferenza con cui si porta al collasso un settore, l’edilizia, che prima della crisi valeva da solo il 30% del Pil locale, esponendo il tessuto sociale a gravi rischi sul fronte della tenuta. Il default è nella completa assenza e di lungo corso di programmazione urbanistica, di attenzione al territorio, nell’assordante silenzio su un’idea che sia una di sviluppo cittadino, nell’indisponibilità al confronto con le parti sociali, o peggio e più frequentemente nell’ascolto disattento, nella mancanza di manutenzione e cura, nel degrado delle strade e nel dissesto delle scuole.

Il grande default

Se il cosiddetto Salva Roma sia o no una partita di giro, cambia poco. Non è questo il punto. Forse finiranno davvero per vendere Roma agli asiatici e Pompei ai tedeschi, per la felicità della troika. Il punto è che il bilancio della Capitale d’Italia – per inettitudine di intere generazioni di politici, alti dirigenti e capitani d’impresa incapaci di vedere oltre il business degli appalti pubblici, dell’emergenza cronica e degli eventi eccezionali – si trova di fatto sotto commissariamento in un Paese che ha già sperimentato e comprovato, per via empirica, che i commissariamenti non funzionano, non risolvono i problemi e spesso, laddove possibile, li aggravano. Il punto è che il default non una questione contabile e di danari, o almeno non solo.

Come sindacato territoriale di categoria, il default lo misuriamo da tempo nella disoccupazione galoppante, nello scadimento delle tutele riservate al lavoro, nella sorda indifferenza con cui si porta al collasso un settore, l’edilizia, che prima della crisi valeva da solo il 30% del Pil locale, esponendo il tessuto sociale a gravi rischi sul fronte della tenuta. Il default è nella completa assenza e di lungo corso di programmazione urbanistica, di attenzione al territorio, nell’assordante silenzio su un’idea che sia una di sviluppo cittadino, nell’indisponibilità al confronto con le parti sociali, o peggio e più frequentemente nell’ascolto disattento, nella mancanza di manutenzione e cura, nel degrado delle strade e nel dissesto delle scuole.

Come corpo intermedio, il default lo incontriamo inoltre nella nuova tangentopoli capitolina, e prima ancora in quella regionale, che sta scuotendo gli alti vertici, lasciandoci esterrefatti e prima ancora privi di interlocutori credibili. Come cittadini, infine, il default ce lo sentiamo addosso, palpabile come una patina oleosa difficile da lavare via: nello scadimento morale del territorio a tutti i livelli, nella mancanza di sicurezza capace di toglierti persino vita, sulla banchina di una metropolitana, in pieno centro storico come nella lontana periferia, sempre più scollegata e rarefatta, di giorno o di notte, nella sporcizia delle strade, nei graffiti sul bus nuovo di zecca, nell’accoglienza di facciata non sostanziata dal rispetto delle regole, nell’acqua non potabile che siamo chiamati a pagare in bolletta.

Davvero non crediamo che possa bastare un Salva Roma, che rischia di rendere necessario a breve un nuovo ulteriore finanziamento, perché di promesse di risanamento del debito sono lastricate tutte le strade che portano al Campidoglio, a salvarci dal default, a fermare questa drammatica deriva. Oltre a tutto questo sappiamo però che siamo chiamati a fare la nostra parte, e di certo non ci sottrarremo, nella gravità del nostro tempo e a maggior ragione di fronte a certe spinte orfane della storia che vorrebbero l’azzeramento di ogni mediazione per coprire con un silenzio vuoto il coro delle voci. La concertazione è la nostra strada e la nostra storia, perfettibile certo ma dalla quale intendiamo partire.

Nell’impegno a stimolare, come categoria, occasioni di confronto orizzontale sempre più stringenti, e sempre meno di facciata, con le quali sollecitare e ancora sollecitare i nostri interlocutori sui diritti del lavoro e sulle opportunità per il settore, sulle idee attorno ad un nuovo modo di costruire sia fisico che morale. E se gli interlocutori attuali non saranno, o più esattamente continueranno a non essere, all’altezza delle aspettative dei lavoratori che rappresentiamo e dei cittadini che tutti i giorni ascoltiamo nei caf o nei patronati, moltiplicheremo le energie per identificarne di nuovi e più credibili.

Nell’impegno a contrapporre l’utilità sociale e i diritti agli interessi corporativi. Nello sforzo a cèrnere ed intercettare elementi di novità reale, se ve ne saranno, dentro a vecchi programmi o a vecchie idee vestiti a nuovo. Crediamo che questa debba essere la nostra strada, la sola via percorribile per tornare a respirare. Nessun decreto ci salverà.