Se le vicende contrattuali erano un aspetto fondamentale dell’azione sindacale, non meno importante era anche tutto ciò che non strettamente dipendeva dalle organizzazioni dei lavoratori ma che tuttavia su di essi, e sulle loro famiglie, ricadeva immediatamente. Con gli anni Sessanta nel nostro Paese era andato affermandosi e consolidandosi il principio, fino ad allora disatteso dai più, che il lavoro fosse non solo un mezzo di sostentamento ma anche e soprattutto una condizione attraverso la quale gli individui affermavano la loro dignità e, quindi, davano forma e sostanza alla cittadinanza repubblicana. La Costituzione riconosceva in molti articoli il nesso profondo tra identità sociale e attività professionale ma, dal dettato del testo della Carta fondamentale alla sua traduzione in atti concreti, il passo era ancora lungo.
Se le vicende contrattuali erano un aspetto fondamentale dell’azione sindacale, non meno importante era anche tutto ciò che non strettamente dipendeva dalle organizzazioni dei lavoratori ma che tuttavia su di essi, e sulle loro famiglie, ricadeva immediatamente. Con gli anni Sessanta nel nostro Paese era andato affermandosi e consolidandosi il principio, fino ad allora disatteso dai più, che il lavoro fosse non solo un mezzo di sostentamento ma anche e soprattutto una condizione attraverso la quale gli individui affermavano la loro dignità e, quindi, davano forma e sostanza alla cittadinanza repubblicana. La Costituzione riconosceva in molti articoli il nesso profondo tra identità sociale e attività professionale ma, dal dettato del testo della Carta fondamentale alla sua traduzione in atti concreti, il passo era ancora lungo.
Una compiuta democrazia sociale tardava ad affermarsi. Più in generale, all’interno di una riconsiderazione delle tumultuose trasformazioni che avevano coinvolto l’Italia dal dopoguerra in poi, entrava in gioco anche la questione dell’assetto urbanistico delle città.
Un problema che aveva molto a che fare con la qualità della vita in esse, in realtà spesso ancora molto bassa, comunque lontana dai parametri che andavano affermandosi in altre parti dell’Europa. Alle migrazioni interne, allo sviluppo demografico, all’espansione vertiginosa delle attività industriali, al ridimensionamento di quelle agricole e rurali, alla trasformazione dell’identità stessa della famiglia italiana, tardavano ad accomunarsi – registrando il senso del mutamento ed indirizzandolo verso sbocchi di interesse pubblico e secondo criteri di programmazione – le leggi che avrebbero dovuto ridisegnare il volto di un Paese completamente diverso da come molti ancora lo pensavano. Il ritardo, va da sé, non era casuale. Congiuravano in tal senso molti elementi, a partire dagli interessi dei costruttori che, dall’anarchia legislativa e dalla semplice giustapposizione di interventi occasionali, avevano tutto da guadagnare. Già si è avuto modo di parlare del diffusissimo fenomeno dei «palazzinari », una vera e propria lobby del cemento che era stata sempre in prima linea nei tentativi di impedire qualsiasi progetto riformista. Non di meno, il progressivo esaurimento del centro-sinistra, una formula non solo di governo ma di gestione della cosa pubblica che si era ben presto arenata sulle spiagge dei veti contrapposti, era stato di pregiudizio a qualsivoglia intenzionalità in senso progressista.
Solo le drammatiche vicende delle disastrose alluvioni di Firenze e di Venezia nel novembre del 1966, precedute dalla frana di Agrigento nel luglio dello stesso anno, le une e l’altra ipocritamente presentate come «calamità naturali» ma in realtà prodotto del dissesto idrogeologico, della mancanza di una politica adeguata di controlli sui bacini fluviali e delle difese a mare, e della dissennata politica dell’abusivismo edilizio (tollerato se non addirittura silenziosamente incentivato), avevano rilanciato la discussione sulla necessità di provvedere ad un’organica legislazione sui territori.
Il tutto però, come da tradizione italiana, sotto la spada di Damocle dell’«emergenza» e della «inderogabilità», urlando al lupo quando questo non solo era già passato ma aveva provveduto a fare strage delle pecore incautamente lasciate fuori dal recinto. Nel febbraio del 1967 si era quindi provveduto, per parte dell’allora ministro ai Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini, alla redazione e alla presentazione di una prima bozza di disegno di legge sul riassetto urbanistico della Penisola.
Si trattava, nelle parole stesse del titolare del dicastero, di un primo passo verso obiettivi ancora più ambiziosi. La discussione parlamentare prese le mosse da quanto lo stesso ministro era andato auspicando, a partire dalla revisione di alcuni istituti particolari, tra i quali il regime di esonero dagli espropri nelle aree di accelerata urbanizzazione che, a giudizio della stessa Feneal, per come era strutturato permetteva il prosieguo della speculazione e della rendita parassitaria sui suoli edificabili.
Su questo tema e, più in generale, sulla necessità di dare finalmente seguito ad una normativa in grado di tutelare l’ambiente come la collettività, si scatenò ben presto il finimondo, orchestrato da una destra economica che non voleva arretrare neanche di un centimetro da quelle che considerava le sue prerogative indiscutibili, essendo queste in realtà unicamente l’espressione di interessi particolaristici e antisociali. La legge urbanistica di Mancini presupponeva una diversa strutturazione dell’ordinamento statuale, fondando l’intervento nel territorio sulla base di una specifica pianificazione regionale (all’epoca le Regioni erano soggetti istituzionali non ancora attuati) e sull’efficienza, l’efficacia e la competenza di appositi organismi creati e messi in azione a tale livello. Il fuoco di fila, come si diceva, non tardò a manifestarsi. La sostanza del problema era la seguente: anni ed anni di malgoverno nel territorio e nelle aree urbane avevano prodotto guasti economici, dispersione di risorse, ritardi di intervento, assenza di sostegni infrastrutturali, ricostruzioni selvagge, trasformazioni surreali, decrementi senza fine (e, a volte, senza rimedio)di occupazione tra i lavoratori. Le difficoltà del settore edile risalivano anche a questo quadro, non potendo essere imputate solo a ragioni “congiunturali”, a fattori occasionali o dipendenti da volontà non connesse con i calcoli d’interesse di una parte dei soggetti in gioco, naturalmente quelli più forti. Anche e soprattutto da ciò era derivato quindi il fatto che la speculazione avesse potuto monopolizzare il mercato, alterandone aspetti decisivi del suo sviluppo, dagli anni della ricostruzione postbellica in poi, offrendo inoltre alla rendita parassitaria spazi altrimenti impensabili.
Per invertire la rotta servivano molte cose. Senz’altro leggi organiche, orientate verso un nuovo modello di sviluppo; ma anche decisi, articolati e profondi interventi orientati a spezzare, nei suoi punti deboli, il blocco sociale che ruotava intorno all’alterazione del mercato immobiliare e, più in generale, alla manipolazione del territorio. Nel Mezzogiorno d’Italia la questione assumeva connotati angoscianti, incontrandosi da subito con il diffusissimo fenomeno della criminalità organizzata, ed in particolare con la presenza pervasiva delle mafie, di cui allora ancora si disconosceva da parte di molti esponenti del potere politico la loro stessa esistenza. Alla visuale di ampio respiro di Mancini e del suo disegno di legge si accompagnava poi l’esigenza ricorrente di interventi per porre rimedio alle infinite priorità, che non potevano attendere più di tanto.
A partire dalla necessità di dare più case alle famiglie italiane in stato di necessità, oltre che le infrastrutture che erano spesso completamente assenti.
Su questa congerie di fattori, sospesi tra progetto ed emergenza, la Feneal cercò di articolare il suo intervento non fermandosi solo alle politiche salariali, ai rinnovi contrattuali e alle richieste di maggiori diritti per i lavoratori, ben sapendo che l’insieme di queste cose si ricollegava alla questione, assai più ampia, dei diritti di cittadinanza, a partire da un uso razionale del territorio. Per tutto il 1967 il sindacato si impegnò quindi nel tentativo di sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica su tale ordine di questioni, scontrandosi con l’opposizione della controparte industriale ma anche con l’inerzia, non casuale, del Parlamento, dove gli interessi dei cementificatori erano ben rappresentati.
Claudio Vercelli