Gli anni Sessanta furono il decennio in cui l’Italia si lasciò definitivamente alle spalle un passato di miserie e di povertà per consegnarsi allo sviluppo, sia economico che politico.
Il nesso tra l’espansione, non solo della quantità di ricchezza prodotta ma anche e soprattutto di quella ridistribuita, e l’evoluzione dell’ordinamento costituzionale e politico in senso democratico, era tanto potente quanto indissolubile.
Si può senz’altro dire che una cosa alimentasse l’altra e viceversa.
Non è un caso, quindi, se nell’arco di questi dieci anni si collocano due fenomeni che concorsero a rivoluzionare i rigidi equilibri del nostro Paese: da una parte i governi di centro sinistra, dall’altra le contestazioni studentesche del 1968 e quelle operaie dell’anno successivo.
Gli anni Sessanta furono il decennio in cui l’Italia si lasciò definitivamente alle spalle un passato di miserie e di povertà per consegnarsi allo sviluppo, sia economico che politico.
Il nesso tra l’espansione, non solo della quantità di ricchezza prodotta ma anche e soprattutto di quella ridistribuita, e l’evoluzione dell’ordinamento costituzionale e politico in senso democratico, era tanto potente quanto indissolubile.
Si può senz’altro dire che una cosa alimentasse l’altra e viceversa.
Non è un caso, quindi, se nell’arco di questi dieci anni si collocano due fenomeni che concorsero a rivoluzionare i rigidi equilibri del nostro Paese: da una parte i governi di centro sinistra, dall’altra le contestazioni studentesche del 1968 e quelle operaie dell’anno successivo.
L’uno e l’altro evento aprono e chiudono un’intensa stagione riformista.
Nel primo caso, già nel 1962 aveva preso corpo un esecutivo cosiddetto «monocolore», ovvero costituito da un solo partito, la Democrazia Cristiana, e presieduto da Amintore Fanfani, ma con l’appoggio del Partito Socialdemocratico, di quello Repubblicano e l’astensione di quello Socialista.
Pur non trattandosi ancora di un vero e proprio dicastero di centro-sinistra, costituiva la premessa per le future evoluzioni politiche che avrebbero visto l’ingresso del Psi dentro la maggioranza, e l’assunzione di incarichi ministeriali da parte di importati uomini di quel partito.
Già il Governo Fanfani si impegnò ad attuare una serie di riforme tra le quali l’istituzione della scuola media unificata (prodotto della fusione tra i precedenti ginnasi, che davano accesso ai licei e poi all’università, con le scuole di avviamento professionale, che invece garantivano unicamente l’ingresso agli istituti tecnico/professionali), la nazionalizzazione delle industrie elettriche con la nascita dell’Ente nazionale per l’energia elettrica e l’istituzione della cedolare d’acconto.
Non fu peraltro un percorso privo d’ostacoli poiché molte erano le resistenze, sia da parte delle forze imprenditoriali che di ampi settori della pubblica amministrazione.
Non pochi tra le une e gli altri lasciavano presagire che i mutamenti in atto sarebbero stati per il nostro Paese nulla di più che l’anticamera di una sorta di “rivoluzione comunista”.
Cosa ovviamente priva di fondamento poiché quello che la politica andava così registrando era semmai un’evoluzione della società, una sua trasformazione che implicava la richiesta, sempre più ampia, di partecipazione ai processi decisionali così come ai benefici derivanti dall’incremento della ricchezza prodotta collettivamente.
Nella seconda metà del 1963 il leader democristiano Aldo Moro varò il primo governo di centro-sinistra «organico», composto non solo dal partito democratico cristiano ma anche dai socialisti, la cui delegazione ministeriale era capeggiata dal loro più importante esponente, Pietro Nenni, che ottenne la vicepresidenza del Consiglio dei ministri, nonché dai socialdemocratici e dai repubblicani.
Anche in ragione di ciò l’ala sinistra del Partito Socialista, l’anno successivo, fedele all’idea di alleanza con i comunisti di Togliatti, provocò una scissione costituendo il Partito Socialista di Unità Proletaria. Il centro-sinistra nutriva l’obiettivo di realizzare un ambizioso programma d’innovazioni, ma ben presto la stretta creditizia, voluta dall’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli, restrinse di molto i margini per l’attuazione dell’ampio pacchetto di riforme.
Non di meno, rilevanti resistenze conservatrici (dal Vaticano ai costruttori, fino all’allora Presidente della Repubblica Antonio Segni) contribuirono all’affossamento degli aspetti più promettenti della progettata riforma urbanistica che, se attuata integralmente, avrebbe invece comportato una parziale pubblicizzazione dei suoli.
Lo scontro politico che ne derivò all’interno della maggioranza portò prima alla caduta del Governo, nel giugno del 1964, e quindi alle minacce di un colpo di Stato (conosciuto come il «Piano Solo», progettato dal comandante dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, con il silenzioso avallo di alcuni politici e, forse, dello stesso Presidente Segni).
Il «rumore di sciabole», così come Pietro Nenni definì i rischi che la democrazia nel nostro Paese andava correndo, indusse il leader socialista ad attenuare le richieste più qualificanti nella stesura del programma del successivo governo.
Quest’ultimo ebbe tra i suoi punti più rilevanti la realizzazione di un progetto di programmazione economica, che tuttavia raccolse ben pochi riscontri concreti. Anche dallo stallo politico che da ciò derivò nei mesi e negli anni immediatamente successivi (stallo che si misurava concretamente nella cesura tra le aspettative del Paese di una evoluzione democratica e le resistenze degli apparati politici, amministrativi e padronali più conservatori) si alimentò la successiva ondata di lotte e proteste che dal 1967 in poi attraversò le fabbriche, i cantieri, le scuole e le università.
In quegli anni la Feneal-Uil registrava su di sé il mutamento in atto.
Mutamento politico, come già si diceva, ma anche sociale ed economico. Il suo esponente di maggiore rilievo era Luciano Rufino, che dal 1962 al 1969 ne fu il segretario generale, raccogliendo sulla sua persona le aspettative e le istanze di riforma sociale di cui il sindacato era divenuto destinatario.
La sua figura, oggi forse poco ricordata, si riallaccia a pieno titolo alla storia delle lotte per la costruzione di una democrazia partecipativa e consapevole, una democrazia per una società di massa quale era l’Italia.
Nato a Potenza il 30 gennaio 1926, Rufino era entrato ben presto in contatto con l’antifascismo della sua Basilicata.
Giovanissimo, partecipò alla lotta contro il regime fascista per poi, alla caduta di quest’ultimo, impegnarsi attivamente alla riorganizzazione del movimento operaio e contadino meridionale.
Una scuola, quest’ultima, che su di lui, come su quelli della sua generazione, lasciò un segno tangibile se non indelebile. Infatti nel dopoguerra partecipò alla ricostruzione delle leghe e delle cooperative contadine, precedentemente distrutte dai fascisti, per poi dedicarsi alla grande stagione dell’occupazione delle terre, in Basilicata come nell’alta Irpinia.
Non si trattò, in quest’ultimo caso, solo di una successione di azioni di forza, ma della costruzione di una vera e propria massa d’urto, un insieme compatto, articolato e coordinato di lavoratori, consapevole di sé, che cercava di conquistarsi letteralmente “sul campo” quei diritti civili e sociali che non aveva mai conosciuto. Fu così che Rufino entrò in contatto con esponenti del movimento riformista quali Riccardo Bauer, Ignazio Silone, Mario Zagari, Giuseppe Faravelli.
Era una generazione che dal confronto corpo a corpo con il fascismo, ma anche dalla contrapposizione alla seduzione che il comunismo andava esercitando su ampi strati di lavoratori, definiva il suo orientamento politico e sindacale. Il futuro segretario della Feneal, pur facendo proprie le posizioni dell’autonomismo socialista, fu infatti ben presto attento ad evitare rotture o scissioni in quel complesso fenomeno che era l’allora unità operaia e contadina.
Da convinto meridionalista capiva che le opportunità di emancipazione di una collettività, ancora troppo legata alle sue origini plebee – dove il povero veniva considerato tale non solo nel presente ma anche in prospettiva, poiché condannato ad uno stato di perenne minorità – erano legate ad una lotta collettiva che implicava l’unione delle forze, anche tra culture politiche e sigle sindacali diverse. Accomunate, però, dall’obiettivo di emancipare il bisognoso dal bisogno, il povero dalla povertà, ma anche e soprattutto il «cafone» dalla sua ignoranza, ovvero dalla non consapevolezza di essere un individuo titolare di diritti inalienabili.
Se nel 1958, durante il congresso confederale della Uil, Rufino era entrato nel comitato centrale e poi nell’ufficio studi del sindacato, due anni dopo divenne membro della segreteria nazionale Feneal e, infine, nel 1962, sua guida.
Nei sette anni di direzione della Feneal l’ancora giovane segretario consegnò la categoria alla sua maturità politica, raccordandone l’azione alle profonde trasformazioni che stavano accompagnando il Paese.
Di fatto, appena qualche anno dopo, la Feneal era già assurta, insieme ai metalmeccanici della Uilm, a punta di diamante delle lotte di quello che sarebbe poi stato conosciuto come l’«autunno caldo» del 1969. Di Luciano Rufino va ancora detto che alcuni contratti dell’edilizia, destinati a lasciare il segno per la loro innovatività, portano non solo la sua firma ma anche e soprattutto il suo pensiero.
Negoziatore abile e paziente, instancabile tessitore, aveva quale obiettivo soprattutto quello di sottrarre gli edili a quel tradizionale «stato d’indigenza » che costituiva lo stigma di un’intera categoria di lavoratori.
Condannati aprioristicamente, dal padronato ma anche dal giudizio di senso comune, ad una perenne subalternità, mentre il Paese conosceva condizioni di trasformazione impensabili prima di allora.
L’azione di Rufino negli anni Sessanta permise al sindacato edile di ascendere ad una nuova veste di soggetto contrattuale non meno che politico.
Anche per tale ragione egli fu il più importante esponente della componente socialista della Uil, per lungo tempo predominata invece dai repubblicani e dai socialdemocratici, fino ad assumere la carica di segretario confederale e segretario della federazione tra Cgil, Cisl e Uil con la delega sul servizio studi. L’attenzione all’unità sindacale, come diretta espressione dell’unione tra lavoratori, è quanto consegnò a coloro che gli succedettero, quando divenne nel 1976 senatore, eletto nel collegio avellinese di Sant’Angelo dei Lombardi, per poi essere nominato, con la legislatura successiva nel momento in cui abbandonò il Parlamento, presidente dell’Italtel telematica. Di lì a non molto, nel 1985, venne infine prematuramente a mancare.
Un sindacato è fatto di donne e di uomini, di militanti e di leader.
Gli uni e gli altri imprimono un timbro indelebile al suo modo di essere. Se gli anni Sessanta furono il tempo della grande speranza, Luciano Rufino di certo ne fu una delle espressioni più alte. Amava dire che l’azione della Feneal doveva essere volta – attraverso il ricorso allo strumento fondamentale del suo agire, il contratto – a mutare radicalmente il «modello dell’edilizia » italiana.
Non più un settore di transito per maestranze deboli, lavoratori divisi, individui senza futuro, interessati solo ad una qualche retribuzione per sopravvivere, ma un comparto dello sviluppo sociale e civile, del pari ad altri ambiti dell’industria, dove chi vi lavorava avrebbe tratto non solo sostentamento economico, ma anche dignità civile e orgoglio professionale.
Claudio Vercelli