Gli anni Sessanta fra tensioni politiche e miopie aziendali

Gli anni Sessanta fra tensioni politiche e miopie aziendali

Le tensioni accumulatesi nel corso della prima metà degli anni Sessanta portarono, nel luglio del 1965, ad uno sciopero generale dell’edilizia.
Si trattava dello sbocco inevitabile di una situazione che si era fatta sempre più insostenibile. Sul piano legislativo la politica del passo in avanti seguito dal passo indietro risultava oramai in tutta la sua insopportabilità.
Nel 1962 era stata approvata la Legge 167 a favore dell’edilizia economica e popolare. L’anno successivo il ministro Fiorentino Sullo aveva proposto un’ipotesi organica di riforma urbanistica, peraltro immediatamente affossata dal suo stesso partito, la Democrazia Cristiana.

Gli anni Sessanta fra tensioni politiche e miopie aziendali

Le tensioni accumulatesi nel corso della prima metà degli anni Sessanta portarono, nel luglio del 1965, ad uno sciopero generale dell’edilizia.
Si trattava dello sbocco inevitabile di una situazione che si era fatta sempre più insostenibile. Sul piano legislativo la politica del passo in avanti seguito dal passo indietro risultava oramai in tutta la sua insopportabilità.
Nel 1962 era stata approvata la Legge 167 a favore dell’edilizia economica e popolare. L’anno successivo il ministro Fiorentino Sullo aveva proposto un’ipotesi organica di riforma urbanistica, peraltro immediatamente affossata dal suo stesso partito, la Democrazia Cristiana.
Negli anni a seguire il Partito Socialista, soprattutto per voce di Giovanni Pieraccini, ministro dei Lavori pubblici, si era lanciato nell’adozione di una nuova legge urbanistica, dimostrandosi disponibile, nell’ambito degli accordi dell’allora centrosinistra, anche ad accettare ipotesi più contenute di quelle già avanzate dallo stesso Sullo.
Di fatto, tuttavia, pure dinanzi alla grave situazione in cui si trovava l’edilizia italiana, agli innumerevoli bisogni che i centri abitati andavano esprimendo – anche in ragione di una motorizzazione e di una mobilità sempre più intense – nulla era stato fatto. Nel 1965, malgrado i progetti di «riforma» fossero costantemente evocati dai governi che si erano succeduti, la sentenza della Corte costituzionale sul meccanismo di esproprio previsto dalla Legge 167 e l’approvazione della Legge 1179, nella quale si faceva obbligo di attuare gli interventi di edilizia sovvenzionata all’interno dei «piani di zona» previsti dalla Legge del 1962, non sortirono effetti pratici significativi.
Non almeno nei termini sperati.
A ciò si sommavano i ripetuti rifiuti per parte industriale alla trattativa; la crisi “congiunturale” che stava provocando un’emorragia di posti di lavoro; la montante strozzatura burocratica del settore, sempre più vincolato da un’amministrazione pubblica sostanzialmente inefficiente ma in grado di bloccare iniziative ed opere di utilità collettiva; il procedere con un esasperante rilento dello sviluppo dell’edilizia economica e sovvenzionata, che non compensava, se non in minima parte, il vuoto ingenerato dalla mancanza di un regolare flusso di investimenti privati nel settore.
L’estate del 1965 fu quindi segnata da molteplici tensioni. I cementieri erano in lotta, dopo che alla scadenza del loro contratto non avevano trovato interlocutori disponibili alla contrattazione. Più in generale, un milione di lavoratori dell’edilizia, tra operai e impiegati, si trovavano dinanzi ad un autunno difficile. L’impegno della Feneal fu in questo caso rivolto soprattutto ad incentivare, sul fronte politico, l’intervento pubblico. Così avvenne per il circuito degli appalti, a seguito del superamento di alcune strozzature di ordine burocratico, quando un importante numero di grandi opere venne finalmente avviato. Più in generale occorreva agevolare la produzione di abitazioni economiche, dinanzi alla crescente domanda e, nel medesimo tempo, all’offerta deficitaria. Due erano, al riguardo, i problemi.
Il primo rinviava alla problematicità nell’erogazione dei mutui da parte Nell’estate del 1965 i cementieri erano in lotta, dopo che alla scadenza del loro contratto non avevano trovato interlocutori disponibili alla contrattazione.
Un milione di lavoratori dell’edilizia si trovavano dinanzi ad un autunno difficile cantiere feneal 11 S TORIA D E L S INDACATO 4 • Aprile 2013 delle banche, laddove si scontavano ritardi e lacune tutte italiane, tra le quali un sistema del credito inadeguato all’evoluzione dei consumi del Paese. Il secondo demandava alla difficoltà di indirizzarne la destinazione verso un tipo di iniziative volte a costruire alloggi non gravati da eccessivi costi produttivi. In ambito imprenditoriale, l’idea che ancora vigeva era infatti quella di potere soddisfare la diffusa domanda attraverso l’intervento di aziende a carattere prevalentemente artigianale, dal ciclo produttivo spezzettato e incompleto, le quali avrebbero tuttavia offerto prodotti finiti a costi maggiori di quelli che, almeno potenzialmente, erano in capo alle grosse imprese.
In buona sostanza, ai già tanti problemi aperti si aggiungevano le dimensioni settoriali e scarsamente programmatiche dell’intervento pubblico, l’ancora eccessiva influenza della rendita fondiaria, l’obsolescenza dei metodi e del circuito produttivo industriale.
Nell’autunno del 1965 dinanzi alle scadenze contrattuali dei cementieri, dei laterizi e degli edili, la risposta padronale fu seccamente indisposta. Sia l’Associazione nazionale dei costruttori che l’Intersind in ottobre avevano comunicato alle segreterie nazionali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori edili l’«impossibilità di migliorare, alla scadenza prevista del 31 dicembre, i contratti collettivi di lavoro nell’industria edile vigenti a quella data».
La controproposta datoriale era di rinnovarne, in automatico, la validità per il biennio successivo, rinviando di due anni qualsiasi concreta discussione, sia sul merito economico che normativo. In realtà, l’asserita incidenza del costo del lavoro sull’insieme degli oneri che gravavano sulle imprese era sostanzialmente contenuta, se non marginale, rispetto ad altri ordini di priorità.
Le paghe nell’edilizia italiana erano tra le più basse in assoluto rispetto all’intera Europa.
Non di meno, il costo degli appartamenti, in proporzione, tra i maggiormente alti. La visuale degli imprenditori si rivelava, ancora una volta, asfittica e priva di qualsiasi prospettiva, protesa com’era a privilegiare solo l’utile immediato. A conti fatti, dinanzi alla richiesta di abitazioni e alla mancata collocazione di una parte dell’abitativo, nonché alla crisi congiunturale, la risposta che poteva essere formulata avrebbe dovuto prendere in considerazione un incremento delle retribuzioni, fatto che avrebbe concorso a sbloccare un mercato che si era temporaneamente bloccato. Si trattava di dare fiato ad una politica keynesiana, dove all’aumento della capacità di consumo avrebbe fatto seguito un beneficio per tutti, sia per lo Stato (che avrebbe visto incrementare i benefici erariali), sia per le imprese (che avrebbero potuto fare fronte ad una domanda maggiore).
Ma la cultura d’azienda sembrava il più delle volte cieca, anche davanti all’evidenza.

Claudio Vercelli