Gli anni Sessanta costituirono un decennio di profondi cambiamenti. Si entrava, in quelli che sarebbero divenuti i dieci anni più vivaci della storia repubblicana, con un’idea di Italia che ancora si rifaceva a degli schemi e a dei modelli derivati da una concezione tradizionale delle cose della vita, dove a primeggiare era ancora il lavoro rurale. La famiglia veniva intesa secondo un costume che rimandava alla cultura cattolica della quasi totalità degli italiani, i rapporti tra generazioni erano basati su una gerarchia verticale e così via.
Più in generale, gli atteggiamenti e i comportamenti erano quelli di un Paese che ancora doveva sviluppare tutte le energie che stava maturando in sé.
Gli anni Sessanta costituirono un decennio di profondi cambiamenti. Si entrava, in quelli che sarebbero divenuti i dieci anni più vivaci della storia repubblicana, con un’idea di Italia che ancora si rifaceva a degli schemi e a dei modelli derivati da una concezione tradizionale delle cose della vita, dove a primeggiare era ancora il lavoro rurale. La famiglia veniva intesa secondo un costume che rimandava alla cultura cattolica della quasi totalità degli italiani, i rapporti tra generazioni erano basati su una gerarchia verticale e così via.
Più in generale, gli atteggiamenti e i comportamenti erano quelli di un Paese che ancora doveva sviluppare tutte le energie che stava maturando in sé.
Dieci anni dopo, tutto sarebbe cambiato.
I primi anni Sessanta stavano infatti facendo emergere le trasformazioni che avevano coinvolto la nostra società alle sue radici, da dopo la fine della guerra: l’economia, ultimatosi il periodo della ricostruzione, era decollata, garantendo uno sviluppo industriale senza pari; si era parte di quel sistema di produzione e consumo che era conosciuto come «neocapitalismo », caratterizzato soprattutto dalla redistribuzione di una parte delle ricchezze prodotte anche agli strati più bassi della società, all’interno un sistema di politiche sociali, il «Welfare State», il cui obiettivo era di garantire al maggior numero possibile di individui l’integrazione nella società attraverso l’offerta in regime pubblico, e non privato, di quei servizi fondamentali per la vita di ognuno di noi: la scuola, la sanità, la previdenza ma anche, in parte, l’abitazione, i trasporti e, più in generale, ogni bene collettivo, ovvero quanto serviva a soddisfare un bisogno comune, avvertito dal singolo individuo ma condiviso da tutti. Una età dell’abbondanza, che si sarebbe però rivelata di breve durata, sembrava ora permettere anche e soprattutto a quanti fino ad allora erano stati esclusi dai benefici della ricchezza collettiva, di accedervi per potere condurre una esistenza più dignitosa. Tutto ciò, a ben guardare, non era il solo risultato delle concessioni fatte, di volta in volta, dalle classi possidenti, bensì il prodotto di una profonda maturazione della società italiana che, del pari a quelle europee, con le quali andava sempre di più integrandosi, iniziava a fare propria una fisionomia assai diversa da quella assunta nel periodo liberale, prima del fascismo, quando l’accesso alla gestione del potere era precluso alle organizzazioni dei lavoratori.
La partecipazione politica, non a caso, tendeva infatti ad aumentare di anno in anno.
Si realizzava attraverso il voto, l’adesione ai partiti, la militanza nelle organizzazioni politiche e culturali che andavano vivacizzando il nostro Paese, ma anche e soprattutto con l’assunzione di impegno nei luoghi di studio e di lavoro. Non a caso gli anni Sessanta saranno ricordati come il periodo in cui la protesta studentesca e quella operaia, a volte saldatesi sulle basi di una comune concezione del cambiamento sociale, dominarono la scena.
Il sindacato non poteva non confrontarsi con questa realtà. I tempi di maturazione, tuttavia, dovevano tenere conto delle richieste della base dei lavoratori.
Nel caso edile, un settore che pure avrebbe poi fatto la sua parte negli anni della contestazione, soprattutto a cavallo tra il 1968 e il 1969, si partiva da una situazione molto diversa da quella che già con l’inizio degli anni Sessanta si poteva facilmente misurare in ambito metalmeccanico.
Il livello di organizzazione rispecchiava le difficoltà che si avevano nel momento in cui si dovevano chiamare i lavoratori alla lotta, meno coscienti dei loro colleghi di altri contesti nel riconoscersi non solo come “forza lavoro” ma anche come titolari di diritti.
Il contratto stipulato, dopo un acceso confronto, nel 1960 fu però il primo segno che c’era qualcosa che stava cambiando. La nuova linea salariale aveva due obiettivi: il primo era il superamento delle cosiddette «gabbie salariali», il secondo era il contrasto ad una concezione unicamente “monetaria” del lavoro e della contrattazione in sua difesa, che riduceva il suo riconoscimento ad un mero fatto retributivo. Le gabbie salariali di fatto imponevano diversi livelli retributivi per la medesima prestazione di lavoro, in base ad un principio di appartenenza territoriale. Introdotte a metà degli anni Cinquanta (ma già sottoscritte in un accordo quadro nel 1945, all’epoca per meglio tutelare i lavoratori dove maggiore era il costo della vita), avevano diviso l’Italia in 14 zone diverse, introducendo un meccanismo di forte sperequazione, che differenziava a priori il lavoro comune. Si trattava infatti di un sistema di calcolo dei salari in relazione a determinati parametri quali, ad esempio, il costo della vita vigente in un determinato luogo.
Di fatto, tra la zona in cui il salario era maggiore e quella in cui il salario era minore la distanza poteva essere anche del 30 per cento.
Solo nel 1961 il numero di zone venne dimezzato, passando da 14 a 7, con la forbice tra le remunerazioni che andò riducendosi al 20 per cento. La completa soppressione data al 1969. Nel mentre, però, dovendo fare fronte a questa situazione, era importante per il sindacato attenuarne gli effetti più pesanti. La richiesta, avanzata dalla Feneal, di un aumento dell’indennità speciale, prevista in busta paga, in cifra netta e non in percentuale, andava in questo senso.
Come aveva lo stesso obiettivo la riduzione dal 14 al 10 per cento dello scarto retributivo nel settore tra donne e uomini. Non di meno si poneva il problema, non solo salariale, di riconoscere un premio di produttività per il settore del cemento, soprattutto in rapporto all’aumento di produzione. L’Italia, nel 1959, era divenuto il secondo Paese produttore di cemento tra quelli associati all’Organizzazione europea per la cooperazione economica.
Ma ai 14 milioni e 250mila tonnellate prodotte in un anno non aveva fatto riscontro un aumento dell’occupazione, segno che il risultato era stato raggiunto grazie all’impegno di quanti erano già impiegati negli stabilimenti. In questo quadro, inoltre, a fronte della grande quantità di cemento prodotto, ancora insufficiente era il suo uso per la crescita e lo sviluppo interno.
Se in quegli anni in tutta Europa esisteva una netta relazione tra consumi di cemento ed evoluzione del Paese, non la stessa cosa poteva essere detta dell’Italia, dove, ed era una situazione di antica data, ai lavoratori non erano offerte condizione abitative decenti.
Il contratto firmato nel giugno del 1960 comportava un aumento salariale del 7,50 per cento, e introduceva il principio di allineare tutte le indennità speciali, da quel momento retribuite non in percentuale ma in cifra, senza distinzioni territoriali: alle 7.000 lire riconosciute agli specializzati, e alle 5.700 per i manovali, si accompagnava la loro estensione a tutti i cantieri del Paese.
L’incremento dell’indennità era inoltre previsto nell’ordine di 1.000 lire annue fino al 1963, contestualmente agli aumenti di produzione e produttività. Così decidendo si introduceva un premio di produzione valido per tutti, indipendentemente dalle dinamiche delle singole aziende.
I lavoratori, in tale modo, venivano permanentemente chiamati a beneficiare dello sviluppo complessivo del settore. Nel complesso, il contratto del 1960 non solo concedeva ai lavoratori benefici il cui ordine di grandezza comportava un incremento del 13 per cento rispetto alla precedente retribuzione, ma apriva una finestra su ciò che stava oltre il salario medesimo.
Se si prevedeva un riordino delle qualifiche secondo un criterio nazionale omogeneo, evitando che ogni azienda facesse da sé, si introducevano anche elementi di contrattazione che avevano a che fare con il riequilibrio territoriale, con la partecipazione e l’attivazione dei diritti dentro i cantieri.
Il fatto stesso di volere superare la rigida divisione delle gabbie salariali andava oltre il dato economico in sé, per cercare di garantire a tutti le medesime opportunità, sapendo che il padronato aveva solo da guadagnarci dallo spezzettamento dei profili lavorativi e retribuitivi, mentre i lavoratori non potevano che perderci.
Come si diceva, in quegli anni si andava aprendo, peraltro, un periodo politico e culturale molto intenso. Dopo la breve stagione dei governi di restaurazione, culminata con l’esecutivo Tambroni, sostenuto alla Camera anche dai voti del Movimento sociale italiano, il partito della destra neofascista, ma travolto dalle proteste popolari, lo scenario di distensione internazionale sembrava ora offrire nuovi orizzonti.
Nel febbraio del 1961 una riunione del Comitato centrale della Uil affrontò di petto la questione del ruolo del sindacato nell’Italia e nell’Europa in cambiamento.
Per la Feneal, e per il suo segretario Luciano Rufino, si trattava di riuscire a dare uno sbocco sul piano politico alla maturazione del movimento dei lavoratori.
L’esigenza più immediata, però, era quella di rompere il criterio adottato dalla controparte padronale, la Confindustria, che cercava in tutti i modi di mantenere la contrattazione «entro un ordinamento fisso e schematico, basato sulle differenze retributive per zone, per sesso, per età, per qualifiche». Il contratto del 1960 era andato in questa direzione.
Il Paese, verso quale direzione sarebbe andato?
Claudio Vercelli