1960: La Feneal consolida il suo spirito europeista e riformista

1960: La Feneal consolida il suo spirito europeista e riformista

La fine degli anni Cinquanta segnava non solo la conclusione di un decennio, dove si era transitato dalla ricostruzione postbellica ad una tumultuosa crescita economica, ma anche la conclusione di un ciclo della penuria e il sostituirsi ad esso di un periodo di espansione che, oltre a traghettare il Paese verso un benessere fino ad allora sconosciuto, avrebbe lasciato il segno anche sul piano politico, sociale e culturale. La Feneal aveva consolidato la sua presenza nel settore edile.
In dieci anni era divenuta un sindacato con un forte radicamento in quel settore del mondo del lavoro dove maggiori erano le incertezze e le precarietà, dettate dal forsennato sfruttamento di una parte dell’imprenditoria, dalla ingordigia dei cosiddetti “palazzinari” e dalla difficoltà, presente ancora in molti lavoratori, di riuscire a tutelare e vedere riconosciuti i propri diritti.

1960: La Feneal consolida il suo spirito europeista e riformista

La fine degli anni Cinquanta segnava non solo la conclusione di un decennio, dove si era transitato dalla ricostruzione postbellica ad una tumultuosa crescita economica, ma anche la conclusione di un ciclo della penuria e il sostituirsi ad esso di un periodo di espansione che, oltre a traghettare il Paese verso un benessere fino ad allora sconosciuto, avrebbe lasciato il segno anche sul piano politico, sociale e culturale. La Feneal aveva consolidato la sua presenza nel settore edile.
In dieci anni era divenuta un sindacato con un forte radicamento in quel settore del mondo del lavoro dove maggiori erano le incertezze e le precarietà, dettate dal forsennato sfruttamento di una parte dell’imprenditoria, dalla ingordigia dei cosiddetti “palazzinari” e dalla difficoltà, presente ancora in molti lavoratori, di riuscire a tutelare e vedere riconosciuti i propri diritti.
Nell’ottobre del 1959 quello che oramai era divenuto lo storico segretario della Feneal, Giordano Gattamorta, decedeva prematuramente, all’età di 63 anni.
Al suo posto subentrò l’allora trentatreenne Luciano Rufino, che nel Congresso confederale della Uil di Firenze del 1958 era entrato a fare parte dell’Esecutivo nazionale. Esponente della nuova generazione di leader sindacali, era tra quanti si stavano incaricando di raccordare la cultura politica di base del riformismo laico, socialista e repubblicano – le cui origini risalivano a Filippo Turati e a Claudio Treves, per poi svilupparsi con Bruno Buozzi e Rodolfo Mondolfo, eminenti figure culturali e politiche della sinistra antifascista, ma non comunista – con le nuove idee e le istanze che dal dopoguerra erano germinate e, tra le altre cose, erano confluite nella medesima Unione Italiana del Lavoro.
Si trattava della generazione della Costituzione repubblicana, per intenderci, che aveva compiuto vent’anni quando l’Assemblea costituente aveva avviato i suoi lavori.
Rufino, originario di Melfi, si era fatto le ossa nelle lotte per unire libertà e giustizia sociale in quel sud d’Italia che, allora come oggi, pagava un dazio fortissimo al sottosviluppo cronico. E proprio in questa logica, partendo dal dato specifico dell’esperienza maturata in un’area economicamente depressa quale il Mezzogiorno, la segreteria Rufino intese assumere un respiro ampio, inserendosi da subito nel discorso, sempre più importante per la Uil come per il suo sindacato edile, dell’Europa.
Si trattava di ragionare al passo con i tempi, sapendo oramai che l’integrazione tra i diversi paesi del continente, oltre a seguire la strada istituzionale (nel 1957 erano stati firmati i Trattati di Roma che sancivano la nascita delle Comunità europee, quegli organismi che avrebbero originato, per successivi passaggi, ciò che oggi conosciamo come Unione Europea), richiedeva l’integrazione dei mercati nazionali del lavoro come delle organizzazioni sindacali che operavano in essi.
Peraltro l’Italia aveva una lunga tradizione di emigrazione, soprattutto in Europa e nelle Americhe. Il lavoro dei nostri connazionali all’estero aveva contribuito alla prosperità dei Paesi in cui si trovavano e, grazie alle rimesse, anche a parte delle fortune dell’Italia.
La quasi totalità dei migranti svolgeva lavoro manuale e molti di essi erano inseriti nel settore edile. Muratori, carpentieri, manovali erano il nerbo di questo universo di persone, impegnate a produrre, con il proprio sforzo manuale, la ricchezza collettiva.
Non considerare questo aspetto, rimanendo consegnati ad una dimensione puramente nazionale, avrebbe comportato la progressiva emarginazione dai grandi circuiti internazionali che andavano costituendosi.
Gli anni Sessanta si aprono quindi con il IX Congresso mondiale degli edili, tenutosi a Montecatini tra il 21 e il 24 aprile del 1960. La Feneal si presentò all’appuntamento con lo spirito europeista e il bagaglio politico riformista che le erano propri.
La delegazione era composta dall’intera segreteria nazionale, capitanata da Rufino. I temi di maggiore discussione furono molti, ma due assunsero priorità rispetto ad una agenda di per sé molto fitta.
Da una parte si pose ripetutamente l’accento sull’evoluzione del mondo edile, sui nuovi modi di fare impresa e, di conseguenza, sull’atteggiamento dei lavoratori, come delle stesse organizzazioni sindacali, dinanzi alla trasformazione delle attività produttive. Lo sviluppo tumultuoso dell’edilizia in quegli anni non rappresentava solo un fenomeno quantitativo, costituendo soprattutto un fattore di mutamento qualitativo destinato a modificare la stessa natura del lavoro edile e i criteri di contrattazione.
Non di meno, e fu il secondo argomento di maggiore rilevanza, si discusse del problema delle abitazioni per i lavoratori.
Poteva sembrare un paradosso, ma i primi a non avere casa erano coloro che venivano chiamati a costruirle.
In quegli anni, a fronte della convulsa crescita degli agglomerati urbani e degli spazi metropolitani, della continua nascita di nuovi quartieri, soprattutto nelle metropoli del Nord, dove più massiccio era l’arrivo di migranti che dalle terre d’origine, nel Mezzogiorno del Paese, si trasferivano verso i nuovi luoghi di lavoro, officine e fabbriche, che una Italia in via di completa industrializzazione offriva in numero sempre maggiore, si iniziò a formulare anche il problema di uno sviluppo più equilibrato delle città.
La questione urbanistica, ovvero il problema della sostenibilità dei processi di trasformazione delle società metropolitane, della considerazione dell’impatto ambientale, dell’indirizzo di fondo da dare ai mutamenti del tessuto civile a fronte della sua crescente urbanizzazione, si impose come strettamente connessa alla soluzione dei grandi temi che riguardavano il lavoro edile: la contrattazione, l’incremento salariale, la dignità della prestazione e la sua continuità, la sicurezza nei cantieri, il riconoscimento del ruolo del sindacato, l’offerta di alloggi a prezzi accessibili e in condizioni di mercato accettabili.
La Feneal che, del pari ai suoi omologhi europei andava avviando una prima riflessione su questo complesso insieme di elementi, individuò nello sviluppo dell’edilizia popolare il criterio per offrire ragionevoli risposte al bisogno collettivo di abitazioni.
Il punto di non ritorno era peraltro dato dal definirsi di un mercato europeo dove la libera circolazione della manodopera costituiva uno degli aspetti sempre più diffusi.
L’Italia costituiva, in termini di dimensioni, il maggior fornitore di manodopera edile, sia per i Paesi dell’allora Mercato Comune Europeo, sia per quelli dell’Efta, la zona di libero scambio alla quale avevano aderito Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Grecia e Norvegia. Le braccia italiane lavoravano in un infinito numero di cantieri sparsi un po’ per tutto il continente. Non di meno, ed era questo un problema fondamentale al quale pensava il neosegretario Rufino, il livello di professionalità era tra i più bassi: i lavoratori dell’edilizia continuavano a scontare una scarsissima preparazione, affidandosi più alla pratica che non ad una adeguata formazione.
Non era solo un problema di capacità lavorative, traducendosi semmai nella incomprensione dei propri diritti, a partire da quello di potere svolgere i propri compiti in un ambiente salubre e sicuro. L’industria edile era vista da molti, a partire dagli stessi economisti, così come dalle autorità pubbliche, alla stregua di una sorta di contenitore dove gettare quella manodopera generica e priva di qualifiche che, invece, il settore metalmeccanico o quello siderurgico andavano sempre più rifiutando.
Ad operai privi di competenze, pensava Rufino, corrispondeva una imprenditoria senza remore né vincoli di sorta, protesa ad ottimizzare i profitti senza guardare in faccia nessuno, così come un mercato del lavoro fragile. Il sindacato risultava quindi indebolito nella sua azione. Il problema, secondo il segretario della Feneal, poteva essere affrontato e risolto solo in un’ottica europea, poiché tale era oramai la dimensione del mercato medesimo.
Il sindacato degli edili andò così formulando un tema che divenne, per tutti gli anni Sessanta, la questione centrale della sua iniziativa politica e sociale: colmare il dislivello nella preparazione dei lavoratori, soprattutto in rapporto all’evoluzione dei sistemi di produzione, anche nei cantieri, laddove andavano introducendosi nuove tecnologie e inediti sistemi di lavoro. Più formazione voleva dire offrire maggiore forza alla contrattazione. Al congresso di Montecatini la Feneal chiese quindi che ci si adoperasse per la costituzione in Europa di un unico ente di formazione professionale, in grado di adeguare i diversi livelli di preparazione dei lavoratori e di formare un sistema unitario, basato su parametri condivisi.
In tale modo quel che si voleva impedire era sia l’indebita “concorrenza” tra maestranze di diversi Paesi sia il ricorso a quelle italiane come ad un sorta di dequalificato “esercito industriale di riserva”, da assoldare a basso prezzo svalutandone ancora di più le potenzialità non solo lavorative, ma anche umane.
A questo, che divenne per il sindacato un impegno costante, si aggiunse la lotta per affermare il pieno impiego della manodopera, precondizione per lo sviluppo economico del Paese. Pieno impiego, progresso sociale, miglioramento delle condizioni dei lavoratori dovevano saldarsi in un unico percorso.
Il 1960 fu, quindi, per la Feneal un anno importante, poiché sancì la sua proiezione sul piano europeo. L’immediato riversamento di questa nuova prospettiva lo si ebbe di lì a poco, con la battaglia per il rinnovo del contratto dei cementieri, quando per parte sindacale – facendo tesoro delle esperienze precedenti – mutò radicalmente il discorso sulla “filosofia negoziale” da sostenere durante la contrattazione: non più solo questioni di salario, ma anche e soprattutto il modo in cui le retribuzioni erano corrisposte, a partire dall’abbattimento delle cosiddette “gabbie salariali”, ovvero la loro differenziazione in base alle diverse aree geografiche di appartenenza.

Claudio Vercelli