Il contratto firmato nel marzo del 1967, dopo una lunghissima vertenza durata quasi venti mesi, garantiva un aumento salariale del 5%, la riduzione dell'orario di lavoro di un'ora e mezza, l'istituzione di un terzo scatto di anzianità del 2%, l'aumento del premio annuale di diecimila lire e una nuova regolamentazione del premio di produzione. In quello che era un effetto di trascinamento sulle orme dell'accordo sottoscritto tra i metalmeccanici (la categoria che stava assumendo il maggiore potere contrattuale nel panorama del lavoro industriale in Italia), per quanto concerneva i diritti sindacali si conveniva di adottare un sistema similare, che andava ad incidere soprattutto sul versante dei contributi e dei permessi.
Il contratto firmato nel marzo del 1967, dopo una lunghissima vertenza durata quasi venti mesi, garantiva un aumento salariale del 5%, la riduzione dell’orario di lavoro di un’ora e mezza, l’istituzione di un terzo scatto di anzianità del 2%, l’aumento del premio annuale di diecimila lire e una nuova regolamentazione del premio di produzione. In quello che era un effetto di trascinamento sulle orme dell’accordo sottoscritto tra i metalmeccanici (la categoria che stava assumendo il maggiore potere contrattuale nel panorama del lavoro industriale in Italia), per quanto concerneva i diritti sindacali si conveniva di adottare un sistema similare, che andava ad incidere soprattutto sul versante dei contributi e dei permessi.
Il contratto firmato nel marzo del 1967, dopo una lunghissima vertenza durata quasi venti mesi, garantiva un aumento salariale del 5%, la riduzione dell’orario di lavoro di un’ora e mezza, l’istituzione di un terzo scatto di anzianità del 2%, l’aumento del premio annuale di diecimila lire e una nuova regolamentazione del premio di produzione.
In quello che era un effetto di trascinamento sulle orme dell’accordo sottoscritto tra i metalmeccanici (la categoria che stava assumendo il maggiore potere contrattuale nel panorama del lavoro industriale in Italia), per quanto concerneva i diritti sindacali si conveniva di adottare un sistema similare, che andava ad incidere soprattutto sul versante dei contributi e dei permessi.
Il contratto di quell’anno inoltre impostava quello che era divenuto un problema fondamentale per la categoria, ovvero l’adozione della medesima scadenza per operai e impiegati intermedi, attraverso l’introduzione di un sistema unitario di contrattazione sul piano temporale. Le parti assumevano l’impegno di riproporzionare le paghe in relazione alla riduzione effettiva dell’orario di lavoro, che era di quarantadue ore e mezzo alla settimana. Sia pure attraverso una macchinosa e complessa procedura di accordo, il premio di produzione veniva sottoposto ad una revisione annuale. Mentre la lotta dei cementieri aveva raggiunto i livelli più intensi, sul piano delle trattative locali per la firma degli accordi integrativi si verificavano situazioni e si ottenevano risultati per più aspetti inediti. A Milano, nel quadro delle innovazioni raggiunte con la contrattazione articolata, veniva istituita la settimana corta per alcuni mesi dell’anno, si introducevano le quote di servizio, si regolamentava l’«anzianità di mestiere», si provvedeva alla revisione delle aliquote dei contributi a carico dei lavoratori e degli imprenditori, si istituzionalizzavano le prestazioni delle Casse edili nei casi di malattia e infortunio.
Nel suo complesso, oltre all’aspetto economico, che pure premeva all’intera categoria, si poteva così registrare un generale passo in avanti nel merito del riconoscimento e della tutela dei diritti del lavoro. L’obiettivo, sul piano sindacale, era e rimaneva quello di sempre, ossia lo sganciare il mondo dell’edilizia da quella condizione (e dall’immagine) di “parente povero” degli altri settori industriali, provvedendo a sancire per accordo ma anche, dove possibile, per legge, un sistema di garanzie destinate a non essere più revocate. Un solido precedente era quello dell’orario di lavoro. Salvo quanto stabilito dallo stesso contratto nazionale, che statuiva la riduzione del monte ore settimanali a quarantatré ore, si introduceva il criterio per cui nei mesi di «bassa stagione», ovvero novembre, dicembre e gennaio, quando maggiori potevano essere le inclemenze del clima, si potesse ricorrere alla settimana corta. L’orario di lavoro veniva fissato in quaranta ore per il 1967, in trentanove per l’anno successivo e in trentotto per il 1969. Le parti concordavano di considerare come orario base per l’integrazione salariale in caso di disoccupazione le quaranta ore settimanali.
Oneri maggiori erano previsti negli altri periodi dell’anno, per arrivare ad una media, nell’arco dei dodici mesi, di quarantacinque ore fino al dicembre del 1967, di quarantaquattro ore dal 1° gennaio 1968 e di quarantatré ore dal 1° gennaio del 1969 fino alla scadenza del contratto. L’istituzione delle cosiddette «quote di servizio» corrispondeva ad una somma che sarebbe stata versata ai sindacati come corrispettivo del servizio reso ai lavoratori con il rinnovo del contratto.
Il loro ammontare era dello 0,15% a carico del lavoratori e nella stessa misura per gli imprenditori. Si trattava, in quest’ultimo caso, di un segnale di forte rafforzamento del potere contrattuale e gestionale delle organizzazioni sindacali che, da soggetti della contrattazione come sanciva lo stesso articolo 39 della Costituzione, assumevano sempre più una funzione di protagonisti non solo dell’economia ma anche della creazione di diritti sociali.
L’introduzione delle «indennità di mestiere», previste dal contratto nazionale, si concretizzavano, con l’integrativo milanese, nell’istituzione di un fondo amministrato dalla Cassa edile come struttura a sé e di natura speciale. Il contributo dei lavoratori per i servizi prestati da quest’ultima veniva ridotto dallo 0,60 allo 0,20%, un passo decisivo verso la definitiva cancellazione degli oneri ascritti in questo campo alla forza lavoro, mentre veniva aumentato il contributo paritetico a carico di questa e della parte datoriale, che passava dallo 0,35 allo 0,70%. Le provvidenze erogate dalla Cassa edile prevedevano le indennità di disoccupazione, i sussidi straordinari, i contributi in caso di infortuni extra-professionali, un’indennità a favore del lavoratore ammalato di tubercolosi (un male che quarant’anni fa ancora coinvolgeva non pochi italiani, soprattutto provenienti dalle realtà geografiche e dalle condizioni sociali maggiormente disagiate), le colonie marine e montane per i figli.
Insomma, un sistema di Welfare che andava ad aggiungersi a quello generalista, offerto dallo Stato a tutti i cittadini. Per una categoria, quella del lavoro edile, abituata a condizioni di disagio non solo sul lavoro ma nella vita quotidiana, e scarsamente considerata a livello sociale, era un riconoscimento non solo materiale ma anche di status. Peculiare – e unico nel suo genere – era poi il protocollo firmato nell’ambito del contratto integrativo ambrosiano, che istituzionalizzava le prestazioni integrative della Cassa edile in caso di malattia o infortunio. Queste prestazioni, in via provvisoria ed eccezionale, erano già state erogate per un certo periodo di tempo ma poi sospese. Adesso il meccanismo veniva assunto e codificato nel contratto locale, prevedendo un regolare e costante finanziamento del fondo.
L’integrazione in caso di malattia o di infortunio avrebbe così operato fino all’80% della retribuzione e per un periodo di centottanta giorni. Successivamente, a decorrere da tale arco di tempo, era prevista la corresponsione “una tantum” di una somma pari a trentamila lire. Si trattava del primo caso in assoluto di assistenza diretta allo spirare dei sei mesi di inabilità o impedimento al lavoro. L’integrativo milanese andava ben al di là del territorio di applicazione, costituendo una premessa alla quale la categoria si sarebbe poi rifatta nella contrattazione in molte altre parti della Penisola.
Claudio Vercelli