Gli anni dell’esplosione produttiva e la trasformazione dell’edilizia

Gli anni dell’esplosione produttiva e la trasformazione dell’edilizia

Con la fine degli anni Sessanta, oltrepassato il tornante congiunturale che aveva messo in serie difficoltà il sistema edilizio dal 1964 in poi, si ritornò a costruire.
Il settore sembrava avere il vento in poppa.
La nuova ed incontrollata espansione si giovava delle favorevoli condizioni offerte dalla normativa, insieme ai mutamenti e alla ristrutturazione dei processi produttivi introdotti nei cantieri.
Un combinato disposto che portava alla disseminazione di costruzioni, ad un'espansione a macchia d'olio di condomini, case, palazzi, senza tuttavia alcuna razionalità di fondo. I costi di questa fase espansiva avrebbero condizionato l'evoluzione urbanistica del Paese nei decenni successivi.

Con la fine degli anni Sessanta, oltrepassato il tornante congiunturale che aveva messo in serie difficoltà il sistema edilizio dal 1964 in poi, si ritornò a costruire.
Il settore sembrava avere il vento in poppa.
La nuova ed incontrollata espansione si giovava delle favorevoli condizioni offerte dalla normativa, insieme ai mutamenti e alla ristrutturazione dei processi produttivi introdotti nei cantieri.
Un combinato disposto che portava alla disseminazione di costruzioni, ad un’espansione a macchia d’olio di condomini, case, palazzi, senza tuttavia alcuna razionalità di fondo. I costi di questa fase espansiva avrebbero condizionato l’evoluzione urbanistica del Paese nei decenni successivi.

Gli anni dell’esplosione produttiva e la trasformazione dell’edilizia

Con la fine degli anni Sessanta, oltrepassato il tornante congiunturale che aveva messo in serie difficoltà il sistema edilizio dal 1964 in poi, si ritornò a costruire.
Il settore sembrava avere il vento in poppa.
La nuova ed incontrollata espansione si giovava delle favorevoli condizioni offerte dalla normativa, insieme ai mutamenti e alla ristrutturazione dei processi produttivi introdotti nei cantieri.
Un combinato disposto che portava alla disseminazione di costruzioni, ad un’espansione a macchia d’olio di condomini, case, palazzi, senza tuttavia alcuna razionalità di fondo. I costi di questa fase espansiva avrebbero condizionato l’evoluzione urbanistica del Paese nei decenni successivi.
Per l’intanto prevalevano ben altri ordini di considerazioni. Il quadro legislativo era estremamente favorevole. Da una parte si poneva il varo di provvedimenti anticongiunturali, come la legge n° 1179, già del 1965; ad essa si riconnettevano quelle misure legislative in materia urbanistica, come la legge n° 765 del 1967, che concorsero a porre le premesse della nuova stagione del cemento. In realtà, la normativa approvata negli anni precedenti avrebbe dovuto porre un freno corposo alla speculazione edilizia che stava imperversando un po’ ovunque.
La 765, ad esempio, conteneva norme decisamente rigide rispetto all’obbligo di lottizzazione convenzionata nelle aree in espansione, con l’attribuzione ai proprietari degli oneri di urbanizzazione primaria (relativi a realizzazione di strade, spazi di sosta o parcheggio, fognature, reti di distribuzione di elettricità, acqua, gas, cavidotti per le comunicazioni, illuminazione pubblica, spazi di verde attrezzato) e secondaria (finalizzati alla realizzazione di asili e scuole, delegazioni comunali, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e culturali); l’istituzione di limitazioni vincolanti per gli indici di edificazione; il controllo della regolarità delle licenze; l’attuazione di un ampio sistema di «vincoli urbanistici» ed altro ancora.
Si trattava di un articolato circuito di disposizioni che, una volta implementate sistematicamente, avrebbero dovuto far svoltare il nostro Paese rispetto al caos nel quale fino ad allora si era trovato. Tuttavia, in consonanza con una tradizione assai consolidata, le leggi contenevano in sé anche quei dispositivi di deroga che, di fatto, ne annullavano gli effetti potenzialmente benefici. Così nel già citato caso della normativa del 1967 che, all’articolo 17, prorogava, in tutti i comuni privi di piano regolatore, l’entrata in vigore delle limitazioni altrimenti tassativamente previste.
Era non meno vero che questa clausola fosse a tempo, prevedendo che potesse applicarsi solo a quanti avessero ottenuto una licenza di costruzione entro l’agosto del 1968, iniziando quindi i lavori non oltre un anno dalla data del suo rilascio e terminandoli entro i successivi ventiquattro mesi. Ma costituiva, nei fatti, la crepa nella diga. Come già si è avuto modo di osservare, da quel momento in tutto il territorio nazionale si verificò una corsa esasperata alle nuove licenze di costruzione. La qual cosa vanificò da subito gli effetti potenzialmente benefici, poiché restrittivi, della legge 765, rinnovando il Far West edilizio che aveva dominato incontrastato per due decenni, ovvero dalla ricostruzione in poi.
Sotto questo impulso, quindi, l’industria delle costruzioni conobbe una nuova fase espansiva. I segni erano dati dall’eccezionale incremento delle progettazioni (in un biennio si arrivò a un milione e mezzo di abitazioni, pari all’ammontare complessivo realizzato nel quinquennio 1961-1965), dall’apertura di nuovi cantieri, dall’inaugurazione di nuovi lavori ma anche da un moderato incremento della forza lavoro impegnatavi. In altre parole, non vi fu corrispondenza tra colate di cemento e aumento dell’occupazione.
Di fatto, con la fine del decennio, la trasformazione del ciclo produttivo interno all’edilizia si era ultimata, segnalandosi per un decremento di offerta di opportunità di lavoro, anche se una parte della disoccupazione generatasi negli anni precedenti era stata riassorbita. Da un lato si generalizzò ulteriormente la meccanizzazione delle operazioni di trasporto e della lavorazione in loco del cemento. Dall’altro, la divisione e la parcellizzazione delle mansioni, attraverso il lavoro in squadre tra di loro in competizione, conobbe un’ulteriore crescita.
Da ciò, ed è anche questa cosa che l’abbiamo già registrata, la ripresa della conflittualità operaia nei cantieri fu, rispetto alle effervescenze che contraddistinguevano altri settori, a partire da quello metalmeccanico, ben più contenuta. Il ciclo di lotte che investì le fabbriche nel triennio 1968-1970 riguardò l’edilizia in maniera maggiormente contenuta.
Il rinnovo contrattuale del 1969 comportò senz’altro benefici: il superamento delle sperequazioni retributive secondo il criterio delle gabbie salariali; un consistente aumento delle retribuzioni, a recupero del blocco salariale verificatosi tra il 1966 e il 1969; la riduzione progressiva dell’orario settimanale da 43 a 40 ore; il riconoscimento – ossia l’introduzione, spesso ancorché “timida” – di alcuni diritti sindacali nei cantieri (nomina di un rappresentante collettivo nei luoghi di lavoro con più di trenta dipendenti; diritto di convocazione di assemblee in cantiere in orario non lavorativo, per un massimo di sei l’anno; diritto di affissione della stampa sindacale nei cantieri e negli uffici).
Tuttavia, l’insieme delle “conquiste”, la cui traduzione in fatti richiedeva comunque un’azione continuativa di vigilanza e promozione del sindacato, poiché molti lavoratori esano sottoposti a vessazioni e ricatti qualora avessero voluto tradurre autonomamente le disposizioni contrattuali in atti concreti, non segnavano nessuna concreta capacità di influenzare l’organizzazione produttiva da parte dei lavoratori medesimi. A tale riguardo, rimase invariata la normativa sugli straordinari, sul cottimo, sul subappalto così come la configurazione delle qualifiche. Gli organismi sindacali di cantiere non potevano avere voce in capitolo. Forse l’aspetto più significativo, in quegli anni, non chiamò in causa tanto l’azione quotidiana nei luoghi di lavoro quanto la realizzazione dell’unità di azione tra le Federazioni di categoria sul terreno contrattuale e rivendicativo.
Già configuratasi, nelle sue linee essenziali, nei primi anni Sessanta, veniva ora sancita, il 18 dicembre 1969, da un patto federativo tra la Feneal, la Fillea e la Filca. Si trattava della sanzione formale di un percorso oramai di lungo periodo che, tuttavia, ebbe i suoi effetti politici.
Nelle situazioni di maggiore forza del movimento sindacale si riuscirono a ridimensionare gli aspetti più eclatanti dello sfruttamento del lavoro edile.
Si poneva così un vincolo alle sottoretribuzioni, al prolungamento senza limiti di sorta dell’orario di lavoro, all’evasione dagli obblighi assistenziali, previdenziali, infortunistici, al ricorso esasperato al cottimismo e ai subappalti truffaldini, soprattutto nelle fasi principali, ed anche maggiormente delicate, delle costruzioni.
Sulla base dell’applicazione della legge n° 1369 del 1960, relativa al «divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di manodopera negli appalti di opere e di servizi», ci si adoperò per contenere la diffusione degli appalti di manodopera in tutte le fasi centrali del ciclo produttivo edile ancora caratterizzate dalla prevalenza di lavorazioni manuali (come la carpenteria, la muratura, la lavorazione del ferro).
Non di meno tali disposizioni rimasero inapplicabili in quelle fasi, come lo scavo o la preparazione del cemento, laddove le imprese specializzate facevano ricorso a macchinari propri.
Il cottimismo perdurava, inoltre, anche nelle fasi finali della costruzione (intonaci, pavimentazioni, infissi e rifiniture, pitture), nelle quali l’intervento tecnologico era assorbito dalle competenze individuali del singolo operatore.
Alla fine della fiera, ciò che emerge da quegli anni è l’incremento sensibile della produttività del lavoro edile. Se fino al 1964 aveva fatto registrare incrementi contenuti, comunque di molto inferiori a quelli verificatisi nell’intero settore industriale, nel periodo successivo si manifesta una netta inversione di tendenza. A partire dal 1965, infatti, il prodotto lordo per occupato aumentò notevolmente (la successione storica, raccolta dall’Istat, indica il 2,2% nel 1965, seguito dal 4,2% del 1966, dal 4% nel 1967 e addirittura da un 8,2% nel 1968). La ragione di questa esplosione era da attribuirsi all’innovazione dei processi produttivi, alla loro accentuata meccanizzazione, alla riorganizzazione della forza lavoro. Un insieme di processi che avevano caratterizzato tutto il decennio. Che, in tal modo, andava così concludendosi.

Claudio Vercelli