Gli anni Sessanta e la modifica dei rapporti tra sindacato e istituzioni

Gli anni Sessanta e la modifica dei rapporti tra sindacato e istituzioni

La metà degli anni Sessanta segnò un ripiegamento per il mondo dell’edilizia, che impiegava allora un milione di lavoratori.
Giovanni Mucciarelli, vice segretario nazionale della Feneal, individuava, a nome di tutto il sindacato, almeno cinque passaggi indispensabili, senza i quali l’intero settore avrebbe rischiato di rimanere soffocato dalla crisi.
Il primo implicava l’approvazione di una nuova legge urbanistica che andasse incontro alle esigenze del territorio come anche delle imprese. Il secondo rinviava alla piena applicazione della legge 167 attraverso la corresponsione ai comuni dei necessari finanziamenti occorrenti per dare corso alle opere di prima urbanizzazione.

Gli anni Sessanta e la modifica dei rapporti tra sindacato e istituzioni

La metà degli anni Sessanta segnò un ripiegamento per il mondo dell’edilizia, che impiegava allora un milione di lavoratori.
Giovanni Mucciarelli, vice segretario nazionale della Feneal, individuava, a nome di tutto il sindacato, almeno cinque passaggi indispensabili, senza i quali l’intero settore avrebbe rischiato di rimanere soffocato dalla crisi.
Il primo implicava l’approvazione di una nuova legge urbanistica che andasse incontro alle esigenze del territorio come anche delle imprese. Il secondo rinviava alla piena applicazione della legge 167 attraverso la corresponsione ai comuni dei necessari finanziamenti occorrenti per dare corso alle opere di prima urbanizzazione. Il terzo chiedeva la trasformazione della legislazione in materia di lavori pubblici, per poter rimuovere le cause oggettive che rendevano difficoltose le procedure per gli appalti. Il quarto sollecitava l’utilizzo tempestivo degli stanziamenti effettivamente disponibili per l’edilizia economica e popolare. Il quinto, infine, rinviava all’accelerazione della definizione di un disegno di legge sull’edilizia convenzionata, all’interno di una programmazione pluriennale per l’incentivazione della costruzione di alloggi economici in regime di iniziativa privata.
La pressione che la Feneal esercitava era sul versante legislativo e quindi istituzionale, avendo identificato nell’intervento anticiclico lo strumento per cercare di porre quanto meno un freno ai gravi segni di difficoltà che l’intero settore aveva iniziato a manifestare già dal 1963. Tuttavia, il senso delle battaglie che andava facendo non si riduceva solamente all’aspetto economico, pur rilevante in sé, poiché c’era un ulteriore elemento che entrava pesantemente in gioco.
La crisi della metà degli anni Sessanta, infatti, aveva segnato nel nostro Paese non solo uno stallo sul versante produttivo ma anche sul piano politico. I gruppi conservatori, infatti, erano pesantemente entrati in campo, cercando di condizionare ogni futura prospettiva di riforma. Si trattava di un vasto agglomerato di forze economiche che traeva i suoi maggiori ricavi non dall’azione nel libero mercato bensì dalla rendita parassitaria e dal ricorso alla speculazione finanziaria. In altre parole, i proventi derivavano dall’accumulazione selvaggia, in regime di monopolio, della ricchezza prodotta dalla mancanza di una libera contrattazione, dalla fragilità istituzionale, dall’assenza di una dialettica imprenditoriale e dalla debolezza contrattuale che ancora accompagnava i lavoratori.
L’obiettivo dichiarato di queste concentrazioni economiche era quello di azzerare i progetti che i governi di centro-sinistra avevano tentato di varare, a volte timidamente, in altri casi con maggiore determinazione, ma che adesso si incontravano con la disapplicazione, l’indifferenza o, addirittura, la palese ostilità. Ciò che emergeva all’orizzonte era la permanenza di un vero e proprio blocco d’interessi, di cui molti costruttori erano parte attiva, la cui ragione d’essere era il mantenere invariato il piano dei rapporti tra capitale e lavoro, ovviamente a sfavore del secondo. Si trattava di lotta d’interessi tra classi contrapposte ma con l’inquietante ombra di una volontà revanscista che avrebbe potuto compromettere non solo l’iter delle singole norme ma anche e soprattutto i nuovi equilibri politici, in sé delicatissimi, che vedevano le forze laiche e riformiste nel ruolo di antagoniste di questo agglomerato parassitario. Una parte della borghesia italiana, abituata a costruire le sue fortune non dalla sfida dell’innovazione e con l’impegno per il cambiamento bensì sulle rendite di posizione, ne era attivamente partecipe.
La qual cosa inquietava moltissimo, traducendosi nelle minacce, neanche troppo velate, di un possibile sovvertimento istituzionale (il «tintinnar di sciabole» di cui avrebbe poi parlato il leader socialista Pietro Nenni), ossia un golpe, in grado di azzerare qualsiasi esperienza politica autonoma.
Come la storia si sarebbe incaricata poi di dimostrare, senza che si arrivasse concretamente a quest’esito pur minacciato, vi fu tuttavia comunque un disegno di restaurazione, voluto dalla destra economica e appoggiato da quella politica, che produsse i suoi effetti. Tra il gennaio e il giugno del 1964 il richiamo ai timori per la difficile «congiuntura», tra i quali si inseriva anche l’ossessione dell’allora Presidente della Repubblica Antonio Segni per l’evoluzione economica del Paese, sortì l’effetto di bloccare ogni cambiamento, a partire da quelli già in atto. Letargico fu in tal senso l’effetto prodotto dalla calcolata inerzialità con la quale si comportarono buona parte dei poteri pubblici. Una consistente parte d’essi si impegnò per disapplicare le disposizioni di legge, attuando una resistenza nei fatti. D’altro canto è risaputo che nessuna norma possa produrre concreti effetti se ad essa non si accompagnano strumenti e mezzi concreti.
Se quindi da un lato le enunciazioni di principio sembravano volere dare spazio alle ispirazioni riformiste sul versante concreto, invece, le cose assunsero ben presto un’altra piega. Nel febbraio del 1965, ad esempio, la Feneal rilevava come il piano di programmazione economica per il quinquennio compreso tra il 1965-1969 prevedesse il 26 per cento degli investimenti nell’edilizia convenzionata, il 42 per cento in quella privata convenzionata e la parte restante in quella privata a libero regime. Sul piano concreto ciò si sarebbe dovuto tradurre in un volume di attività per novemila miliardi di lire, corrispondente a dieci milioni di vani prodotti. Se effettivamente tale obiettivo fosse stato raggiunto si sarebbero coperti tre quarti del fabbisogno di abitazioni laddove esso era da considerarsi prioritario.
Il calcolo derivava dal rapporto tra incremento della popolazione e preesistente deficit di offerta. Dopo di che, a fronte di questo disegno istituzionale, il sindacato riscontrava l’inesistenza di strumenti legislativi adeguati nonché la scarsa o nulla disposizione ad ovviare a tale situazione. Lo schema di legge sull’edilizia convenzionata ancora riposante in Parlamento, in un documento di «osservazioni sulla congiuntura » firmato dalla Feneal, era denunciato come «quanto di più farraginoso e pesante potesse essere impostato». A calcoli fatti, insomma, emergeva lo scarto drammatico tra promesse e realtà dei fatti.
L’entità delle cifre messe a disposizione per gli interventi pubblici era drasticamente al di sotto degli oneri che sarebbero derivati, solo per fare un esempio, dall’acquisizione delle aree, ad altissimo costo, comprese nei comprensori previsti dalla legge 167. Detto in altre parole: si era in presenza del gioco delle tre carte, una sorta di gioco di prestigio dove, alla promessa di ottenere qualcosa, seguiva la sua irraggiungibilità.
Più in generale, l’intero settore edile, ora in sofferenza per i riflessi della repentina crisi economica, necessitava di una ristrutturazione e di una industrializzazione che buona parte del padronato di allora, spalleggiata da significative componenti del quadro politico, era ben lontana dal volere vedere realizzate. La sfida, per la Feneal, diventava quindi anche di natura politica.

Claudio Vercelli