Gli anni Settanta nell’edilizia

Gli anni Settanta nell’edilizia

Il decennio si apre con l'onda lunga delle lotte politiche e sindacali maturate nel biennio precedente e, quindi, dei loro effetti di lunga durata. Volendo riassumere il senso di una decina d'anni, nei quali l'Italia se da un lato consolida la sua posizione di potenza economica dall'altro avvia i processi di trasformazione che poi, nei tre decenni successivi, ne avrebbero cambiato il volto economico, fino alla crisi dei giorni nostri, l'edilizia si confronta con alcuni passaggi capitali.
Li affronteremo in questi e nei successivi articoli. Il primo di essi rimanda alle lotte per la casa. Se l'intero capitolo della rifoma urbanistica, e con esso, il discorso che coniugava abitabilità a vivibilità delle aree urbane era rimasto prerogativa a lungo dei ceti sociali più abbienti, riducendosi nel caso di quelli subalterni al problema di "un tetto per la notte", con la stagione dei movimenti popolari la questione del diritto all'abitazione, e alla qualità di esse, nonché delle infrastrutture che si debbono accompagnare, diventa una questione centrale nelle rivendicazioni del movimento dei lavoratori e delle stesse organizzazioni sindacali.

Il decennio si apre con l’onda lunga delle lotte politiche e sindacali maturate nel biennio precedente e, quindi, dei loro effetti di lunga durata. Volendo riassumere il senso di una decina d’anni, nei quali l’Italia se da un lato consolida la sua posizione di potenza economica dall’altro avvia i processi di trasformazione che poi, nei tre decenni successivi, ne avrebbero cambiato il volto economico, fino alla crisi dei giorni nostri, l’edilizia si confronta con alcuni passaggi capitali.
Li affronteremo in questi e nei successivi articoli. Il primo di essi rimanda alle lotte per la casa. Se l’intero capitolo della rifoma urbanistica, e con esso, il discorso che coniugava abitabilità a vivibilità delle aree urbane era rimasto prerogativa a lungo dei ceti sociali più abbienti, riducendosi nel caso di quelli subalterni al problema di “un tetto per la notte”, con la stagione dei movimenti popolari la questione del diritto all’abitazione, e alla qualità di esse, nonché delle infrastrutture che si debbono accompagnare, diventa una questione centrale nelle rivendicazioni del movimento dei lavoratori e delle stesse organizzazioni sindacali.

Gli anni Settanta nell’edilizia

Il decennio si apre con l’onda lunga delle lotte politiche e sindacali maturate nel biennio precedente e, quindi, dei loro effetti di lunga durata. Volendo riassumere il senso di una decina d’anni, nei quali l’Italia se da un lato consolida la sua posizione di potenza economica dall’altro avvia i processi di trasformazione che poi, nei tre decenni successivi, ne avrebbero cambiato il volto economico, fino alla crisi dei giorni nostri, l’edilizia si confronta con alcuni passaggi capitali.
Li affronteremo in questi e nei successivi articoli. Il primo di essi rimanda alle lotte per la casa. Se l’intero capitolo della rifoma urbanistica, e con esso, il discorso che coniugava abitabilità a vivibilità delle aree urbane era rimasto prerogativa a lungo dei ceti sociali più abbienti, riducendosi nel caso di quelli subalterni al problema di “un tetto per la notte”, con la stagione dei movimenti popolari la questione del diritto all’abitazione, e alla qualità di esse, nonché delle infrastrutture che si debbono accompagnare, diventa una questione centrale nelle rivendicazioni del movimento dei lavoratori e delle stesse organizzazioni sindacali. Non è solo l’affermarsi della pur fondamentale logica del soddisfacimento di un bisogno incomprimibile (l’abitare, per l’appunto) ma il definirsi di una radicale richiesta nel merito della sua qualità, legata anche ad una diversa concezione dello spazio, che diventa ora luogo di socialità, dove costruire le proprie relazioni interpersonali. Le lotte per la casa si inseriscono dentro questo quadro socioculturale.
Nascono senz’altro dal rallentamento e dall’assestamento dei processi migratori interni al nostro Paese, fatto che porta ad una stabilizzazione della popolazione nei territori di insediamento, soprattutto nel Nord d’Italia. Questione, quest’ultima, che apre il capitolo delle rivendicazioni sulla destinazione dei luoghi nei quali i più sanno che dovranno vivere per il resto della loro esistenza. A ciò, però, si abbina, una più generale domanda su quella che da allora viene riconosciuta e chiamata come «qualità della vita». La quale rinvia non solo alla natura dei rapporti tra persone diverse che condividono il medesimo spazio bensì all’idea che non tutto il territorio, così come la casa stessa, siano sempre e comunque assoggettabili a presupposti di ordine strettamente economico, mercantile se non speculativo.
A tale premessa, infatti, viene contrapposto il convincimento – sul quale già ci eravamo soffermati in trascorse riflessioni – che la questione della casa vada intesa essenzialmente come un bisogno sociale, la cui soluzione non è questione ascrivibile, demandabile e risolvibile nel solo fatto tecnico, da affidare al mercato, bensì scelta politica di lungo respiro, di competenza di organismi collettivi, o di rappresentenza collettiva, democraticamente eletti. In prospettiva, ogni cittadino, indipendentemente da quella che è la sua concreta posizione nel mercato del lavoro, quindi a prescindere dalla sua ricchezza e dal suo potere, deve potere accedere ad un insieme di risorse fondamentali, tra cui l’abitazione, che possano garantirgli uno sviluppo basato sui principi della dignità e del decoro.
Le manifestazioni di questa crescente coscienza collettiva si esprimono, già alla fine degli anni Sessanta, nello sciopero generale per la casa del 19 novembre 1969, dove viene avanzata, a chiare lettere, la richiesta di dare corpo ad una politica edilizia che tenga in conto queste premesse, per poi proseguire negli anni successivi con la lunga stagione delle lotte per la casa. Queste ultime, a volte imprevedibili e comunque non lineari, in certi casi anche velleitarie, dove al confronto con la controparte pubblica, ossia le istituzioni ma anche le imprese private, si accompagnano le convulsioni delle occupazioni abusive, che generano il confronto tra assegnatari regolari e occupanti illegittimi. Lo spontaneismo, in questo caso, ha la meglio su qualsiasi altro metodo, travolgendo anche la mediazione delle organizzazioni sindacali.
I primi anni Settanta, infatti, sono attraversati anche dai tumulti che coinvolgono decine di migliaia di lavoratori con le loro famiglie, in parte ancora componenti del popolo dei “baraccati” (ossia da quell’insieme di persone residenti in vere e proprie baracche provvisorie, collocate a immediato ridosso della periferie urbane), in parte comunque collocati in vani provvisori, spesso sprovvisti dei servizi essenziali (fognature, corrente elettrica, acqua, trasporti e così via). Dalla cognizione di questa asimmetria sociale, che si fa deficit civile e democratico, si sviluppa quindi una nuova stagione di lotte per il diritto all’abitazione. Il sindacato se ne fa ben presto latore e poi titolare. Poiché non solo ciò risponde ad un suo mandato specifico, parte della sua stessa ragione d’essere, ma anche e soprattutto per via del fatto che il nuovo concetto di cittadinanza, che va così affermandosì, non si riduce alla democrazia del lavoro e nei luoghi di lavoro, per espandersi, semmai, verso nuovi orizzonti, basati sull’inclusività.
Non si tratta, sia ben chiaro, di un processo lineare. Tuttavia mette in scena, anche in campo edile, nuove figure, basate su uno specifico protagonismo, dove il rapporto tra produttore e fruitore, tra lavoratore e affittuario non è più filtro tra ruoli precostitutiti ma occasione per generare nuovi sodalizi e identità collettive comuni.

Claudio Vercelli