Il Congresso come rito e come opportunità

Il Congresso come rito e come opportunità

Qualcuno avrebbe senz'altro da ridire, ma una delle parole chiave di qualsiasi sindacato che sia tale per davvero, ossia che abbia un reale radicamento territoriale e nelle categorie, è il termine ricorrente ed evocativo di «congresso». Parola nel medesimo tempo magica e oziosa. Poiché rinvia da subito a due aspetti fondamentali del sindacalismo contemporaneo: la discussione e la mediazione interna, insieme alla liturgia assembleare.
L'uno e l'altro elemento non si possono in realtà separare, essendo le due parti di un modo di vivere l'azione di rappresentanza del lavoro e, nello stesso tempo, di costruzione e ridefinizione perenne dei rapporti interni, senza i quali l'organizzazione sindacale non potrebbe esistere. Si è spesso discusso sul reale valore dei congressi. Dal punto di vista decisionale c'è chi obietta che non è quella la sede in cui le scelte più importanti vengono assunte.

Qualcuno avrebbe senz’altro da ridire, ma una delle parole chiave di qualsiasi sindacato che sia tale per davvero, ossia che abbia un reale radicamento territoriale e nelle categorie, è il termine ricorrente ed evocativo di «congresso». Parola nel medesimo tempo magica e oziosa. Poiché rinvia da subito a due aspetti fondamentali del sindacalismo contemporaneo: la discussione e la mediazione interna, insieme alla liturgia assembleare.
L’uno e l’altro elemento non si possono in realtà separare, essendo le due parti di un modo di vivere l’azione di rappresentanza del lavoro e, nello stesso tempo, di costruzione e ridefinizione perenne dei rapporti interni, senza i quali l’organizzazione sindacale non potrebbe esistere. Si è spesso discusso sul reale valore dei congressi. Dal punto di vista decisionale c’è chi obietta che non è quella la sede in cui le scelte più importanti vengono assunte.

Il Congresso come rito e come opportunità

Qualcuno avrebbe senz’altro da ridire, ma una delle parole chiave di qualsiasi sindacato che sia tale per davvero, ossia che abbia un reale radicamento territoriale e nelle categorie, è il termine ricorrente ed evocativo di «congresso». Parola nel medesimo tempo magica e oziosa. Poiché rinvia da subito a due aspetti fondamentali del sindacalismo contemporaneo: la discussione e la mediazione interna, insieme alla liturgia assembleare.
L’uno e l’altro elemento non si possono in realtà separare, essendo le due parti di un modo di vivere l’azione di rappresentanza del lavoro e, nello stesso tempo, di costruzione e ridefinizione perenne dei rapporti interni, senza i quali l’organizzazione sindacale non potrebbe esistere. Si è spesso discusso sul reale valore dei congressi. Dal punto di vista decisionale c’è chi obietta che non è quella la sede in cui le scelte più importanti vengono assunte.
In genere, la medesima persona, animata da profondo scetticismo, osserva anche che se le parole (pronunciate e scritte) si sprecano, i fatti – poi – a volte vengono a mancare. Insomma, una sorta di incoerenza parrebbe accompagnarsi alla ritualità dell’incontrarsi, dello stare insieme almeno per qualche giorno, dell’accalorarsi in discussioni sul mondo intero, salvo poi delegare ad altri il vero potere e, esauriti i fuochi d’artificio, ritornare nella propria dimensione locale, particolare, a volte strettamente personalistica.
Può darsi che sia anche così. Tuttavia, un giudizio di tal genere, in sé impietoso, omette di riconoscere un altro aspetto, ossia che è proprio nel confronto congressuale che si definiscono gli indirizzi di fondo dell’organizzazione (mète e strumenti per raggiungerle) così come le donne e gli uomini che, in funzione dirigente, a ciò eletti dai delegati in rappresentanza di tutti gli iscritti, dovranno adoperarsi per renderli fatti concreti.
C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato: il congresso, a qualsiasi livello, è sempre un momento per socializzare, ossia per condividere l’esperienza umana del rapporto con l’altro da sé.
Nell’attività quotidiana del sindacalista, spesso obbligata dai tecnicismi che attraversano il mondo del lavoro, dagli oneri amministrativi e burocratici da rispettare, dalla grande quantità di adempimenti da soddisfare, lo spazio per la riflessione, lo scambio di idee e la formazione di un’opinione sulle medesime cose che chiamano in causa la sua e l’altrui attività, è spesso contratto. Da più parti frequentemente ricorre, quasi fosse un disagio da affrontare, un bisogno insopprimibile, l’esigenza di comprendere il mutamento nonché di ravvivare rapporti e i legami con le persone che svolgono la propria attività ma con le quali, il più delle volte, ci si può incontrare solo se si crea appositamente l’occasione. Il congresso, per l’appunto, è questa occasione. Non molto di più ma neanche tanto di meno.
La Fenea (Federazione nazionale dei lavoratori edili e affini), poi Feneal, nasce sulla scorta anche di queste considerazioni. Il suo atto d’origine data al 22 settembre del 1951, quando a Potenza fu creata la prima struttura che tuttavia, a causa delle tante ristrettezze economiche, non poté celebrare il suo primo congresso da subito.
L’ambito in cui l’iniziativa si originò era quello dei riformisti e laici che si riconoscevano nell’Unione italiana del lavoro, creata a sua volta a Roma diciotto mesi prima, quando 253 delegati avevano partecipato al suo convegno costitutivo. Tra di loro è giusto ricordare figure come quelle di Italo Viglianesi, Enzo Dalla Chiesa e Renato Bulleri del Partito socialista unitario, Raffaele Vanni e Amedeo Sommovigo del Partito repubblicano, nonché quella dell’ex Presidente del Consiglio Ferruccio Parri.
Le posizioni della Fenea ricalcavano quelle dell’Unione, trovando nei «cinque pilastri», così come allora venivano definiti, il programma dentro il quale rappresentare, tutelare e promuovere i diritti e gli interessi dei lavoratori dell’edilizia. Se da una parte si indicava l’indipendenza dai partiti, dai governi e dalle confessioni religiose come valore in sé, dall’altro si indicava come obiettivo la valorizzazione dell’autonomia delle federazioni di categoria, perseguendo l’adozione del metodo democratico con la partecipazione attiva dei lavoratori, l’unità d’azione con le altre due organizzazioni confederali e l’intervento su tutti i problemi di politica sociale ed economica ogni volta che fossero in gioco le sorti della classe lavoratrice. Il primo segretario generale della Fenea fu Giordano Gattamorta, riconfermato in tale ruolo fino alla sua morte, avvenuta nel 1960. Durante gli anni del suo mandato il sindacato passò dagli originari cinquemila iscritti a ventimila.
Nel 1958, con il terzo congresso, il cambiamento del nome in Feneal, con il rimando ai lavoratori del legno, segnò l’incorporazione all’interno della Federazione degli operatori del settore. Le successive segreterie, attraverso i diversi congressi nazionali così succedutisi, avrebbero visto prima Luciano Rufino poi, con la sesta assise nazionale, Giovanni Mucciarelli chiamati a ricoprire questo importante ruolo. Nel 1981, sarebbe poi stata la volta di Giancarlo Serafini, seguito nel 1989, da Francesco Marabottini.
Alla conclusione del lungo mandato di quest’ultimo, nel 2006, sarà Giuseppe Moretti a succedergli, sostituito nel 2010 da Antonio Correale, prematuramente deceduto nel 2012, e quindi sostituito da Massimo Trinci, attuale segretario uscente. Fin qui gli aspetti della cronaca di 60 e più anni di avvicendamenti. In realtà, in questo lungo lasso di tempo si dipana, attraverso la storia vista con gli occhi dei congressisti di allora e di oggi, un segmento significativo delle vicende del nostro Paese.
La Feneal nasce come organizzazione piccola, a tratti fragile, figlia minore di un sindacato, la Uil, generatosi, non senza difficoltà, dalla stessa Cgil. Dal corpo della casa madre, infatti, erano uscite, nel corso del tempo, le componenti repubblicane, socialdemocratiche, laiche e riformiste, alla ricerca di approdi organizzativi indipendenti. Da subito la rappresentanza degli edili deve quindi confrontarsi con due polarità contrapposte: la necessità di differenziarsi dalla potenza omologatrice dei “cugini” socialcomunisti e il bisogno di fare fronte alla povertà (di risorse, di idee ma anche di prospettive) che sembrava caratterizzare il lavoro edile, visto allora – e in parte anche in seguito – come il figlio minore di un’industria che andava prendendo quota. Per i primi vent’anni l’azione della Feneal sarà quindi giocata sul piano della dignità propria e di quella dei propri rappresentati.
La grande crescita che l’organizzazione sindacale registra tra il 1960 e il 1970 costituisce uno spartiacque, aprendo ad orizzonti fino ad allora impensati. Non sono solo gli anni d’oro dell’edilizia privata e delle infrastrutture pubbliche, quando il comparto, e con il esso il volume di affari, si dilata sensibilmente.
Semmai è il transito verso forme di organizzazione del lavoro più moderne a segnare il modo di fare sindacato. Il dibattito ai congressi, in una lunga stagione riformista, attraversata da molte speranze così come da non pochi timori, a partire da quello – più che legittimo – per una repentina svolta autoritaria, raccoglie queste istanze. La stagione dell’unità sindacale, con la Cgil e la Cisl, sarà poi fondamentale anche per la capacità dei lavoratori edili di ottenere contratti più vantaggiosi non solo in termini economici ma anche sul piano normativo come dei diritti. La Feneal recepisce al suo interno queste dinamiche.
Da un lato assesta le sue strutture, le consolida, riesce a coprire l’intero territorio nazionale. Non di meno, questo processo di radicamento comporta anche aspetti di maggiore difficoltà, intervenuti sulla base degli oneri organizzativi che una rappresentanza permanente chiama in causa. Con il decennio successivo, quando negli anni Ottanta i mutamenti che di lì a non molto avrebbero investito il pianeta intero iniziano a manifestarsi, per la Feneal la stagione unitaria, che non si è mai conclusa, si incontra con gli interrogativi sul cambio di passo che il Paese sta conoscendo.
I primi governi a guida non democristiana, l’erosione del consenso intorno al Partito comunista ma anche lo sviluppo di un’economia dell’informazione e post-manifatturiera, si accompagnano alla tenuta e al consolidamento sia del mercato immobiliare che del settore pubblico.
E tuttavia, senza per ciò arrivare a pensare che tutto possa prima o poi essere messo in discussione, per pervenire infine alla drammatica situazione di questi ultimi anni, nel sindacato c’è chi pensa anticipatamente al fatto che non sia tutto oro ciò che brilla. Con tangentopoli, e il collasso della cosiddetta Prima Repubblica, laddove emergono le infinite contraddizioni che accompagnano lo «sviluppo senza progresso » dell’Italia, i contorni dei problemi iniziano a farsi più netti. Per i congressi della Feneal, ad una parola chiave come «riformismo», coniugata a «responsabilità », si accompagnano ora più che mai i discorsi sul «bilateralismo» e sulla «contrattazione». Espressioni, queste, che ricorrono assiduamente dai palchi congressuali così come nei documenti che corredano le assise collettive.
Anche per questa ragione, ossia per il continuo rimando alla dimensione progettuale del sindacalismo edile, quasi che il costruire beni di uso comune implichi il rinviare alla determinazione di un futuro condiviso, gli anni della crisi che si sono ora imposti costituiscono un mutamento drastico di scenario.
Il sedicesimo Congresso nazionale, che si terrà in ottobre, a conclusione della lunga stagione congressuale territoriale, dovrà confrontarsi con l’ipotesi più temuta, ossia che il declino possa divenire un fattore strutturale del Paese.
La qual cosa fa pensare che il rilancio dell’azione sindacale non possa seguire solo le vecchie piste, necessitando semmai di una progettualità quale mai, ad oggi, si è avuto la forza di mettere in campo.

Claudio Vercelli