Il Sindacato durante i difficili anni Cinquanta, tra precariato e vessazioni

Il Sindacato durante i difficili anni Cinquanta, tra precariato e vessazioni

L’istituzione della Cassa e delle scuole edili, previste entrambi dal contratto del 1952, rappresentavano un rilevante passo in avanti. La cassa era uno strumento di tutela importantissimo in un settore del mondo del lavoro, quello dell’edilizia, in espansione ma anche attraversato da molti problemi, dove più che mai necessitavano i sussidi di disoccupazione, l’assistenza malattia, il sostegno economico ma anche quello sociale.
Con la cassa, ad esempio, si sarebbero potute istituire colonie marine e montane per i figli dei lavoratori. Non di meno si poteva sperare di offrire una serie di servizi che avrebbero integrato le loro retribuzioni, mediamente più basse di quelle di altre categorie.

Il Sindacato durante i difficili anni Cinquanta, tra precariato e vessazioni

L’istituzione della Cassa e delle scuole edili, previste entrambi dal contratto del 1952, rappresentavano un rilevante passo in avanti. La cassa era uno strumento di tutela importantissimo in un settore del mondo del lavoro, quello dell’edilizia, in espansione ma anche attraversato da molti problemi, dove più che mai necessitavano i sussidi di disoccupazione, l’assistenza malattia, il sostegno economico ma anche quello sociale.
Con la cassa, ad esempio, si sarebbero potute istituire colonie marine e montane per i figli dei lavoratori. Non di meno si poteva sperare di offrire una serie di servizi che avrebbero integrato le loro retribuzioni, mediamente più basse di quelle di altre categorie.
Le scuole dovevano invece offrire una preparazione di base per qualificare maestranze altrimenti prive di formazione. Non si trattava solo di elevare la qualità della prestazione ma anche di far crescere una forza lavoro consapevole di sé, dei propri diritti, e in grado di sottrarsi alla morsa di un mercato fatto di precarietà, prestazioni occasionali e vessazioni abituali.
L’attuazione del contratto non fu cosa facile, trovando resistenze un po’ ovunque tra la controparte imprenditoriale, assai poco disponibile a rispettare i patti. Peraltro, solo con il 1959 si sarebbe arrivati alla legge che ne sanciva la validità per tutti.
Al momento si faceva come si poteva, affidandosi alla correttezza del datore di lavoro oppure ribadendo le proprie ragioni con tutti gli strumenti a disposizione, a partire dagli scioperi.
Erano anni, quelli, difficili, dove la linea del cosiddetto «centrismo», rappresentato dalla Democrazia cristiana, il partito dominante, si coniugava alle continue ingerenze della Chiesa cattolica nella vita italiana. Non era facile, per i sindacati laici, affermare le propri ragioni. Alla fine del 1953 la Uil celebrò il suo primo congresso dopo la sua costituzione in quanto Unione di sindacati indipendenti.
La Feneal, a sua volta, tenne la sua seconda assise nazionale a Ferrara. La situazione dell’organizzazione era promettente: in due anni, dal 1951 al 1953, il numero degli iscritti era quadruplicato, arrivando alla cifra di 19.500 aderenti.
Al Congresso si misurò l’importanza di due fattori: la crescita di un gruppo dirigente interno che avrebbe espresso, nel corso del tempo a venire, ben sei segretari confederali e uno generale, Raffaele Vanni; e l’impatto delle trasformazioni sociali sull’economia italiana. Si era oramai prossimi alla conclusione della fase della ricostruzione e il Paese si avviava verso quello che sarebbe stato conosciuto come il «miracolo economico».
Un elemento fondamentale di questa grande trasformazione era lo sviluppo del settore edile. Le migrazioni interne, che stavano iniziando a caratterizzare l’Italia, con lo spostamento di un gran numero di persone provenienti perlopiù dalle campagne meridionali verso le città industriali del settentrione, non potevano non avere riflessi anche sul sindacato. Il quale era chiamato a far fronte all’organizzazione di lavoratori che non avevano nessuna esperienza di attività rivendicativa (affidandosi, semmai, alla contrattazione individuale, dove risultavano sempre soccombenti alle imposizioni della controparte) e, ancor meno, piena coscienza dei loro diritti.
Erano uomini e donne che si trovavano a dover fare i conti con una realtà, quelle delle metropoli del nord, completamente estranea a quanto si erano lasciati alle spalle. Fatto che imponeva una completa riconsiderazione del modo di essere del sindacato stesso.
Alcuni problemi stavano poi diventando vere e proprie emergenze nazionali: le abitazioni, i trasporti, ma anche la sicurezza sul lavoro e la formazione professionale. Il congresso fer- 1951 – 2008 Più di mezzo secolo di lotte L’avventurosa storia della Feneal-Uil Il Sindacato durante i difficili anni Cinquanta, tra precariato e vessazioni Non era facile, per i sindacati laici, affermare le propri ragioni rarese della Feneal mise quindi a fuoco le priorità sulle quali impegnarsi, denunciando la situazione del settore edile, a partire dalla durata media della giornata di lavoro, che superava abbondantemente le otto ore dell’industria.
Il settore delle costruzioni era in pieno fermento, dovendo soddisfare una domanda di alloggi che stava alimentando la più spietata speculazione edilizia. La costruzione di interi quartieri in deroga a qualsiasi norma, non solo di ordine urbanistico ma anche di buon senso, lo sviluppo di un capitalismo «selvaggio», che utilizzava i dipendenti nei cantieri come pura merce, immediatamente sostituibile all’occorrenza, l’edificazione di case e di vani per l’edilizia popolare senza considerazione alcuna per i bisogni dei destinatari, ma anche la contestazione di diversi aspetti della politica del partiti al governo, a partire da quella espressa all’allora ministro Fanfani, erano tra gli obiettivi delle lotte che il sindacato degli edili Uil intendeva promuovere.
La Feneal peraltro, oltre a contrastare le derive altrui, si poneva anche il problema di proporre delle soluzioni concrete. Alle misure di ordine più strettamente solidaristico (unificazione dei diversi istituti previdenziali e mutualistici; aumento delle pensioni; estensione delle Casse Edili a tutte le province), indirizzate a tutelare i lavoratori come cittadini, si alternavano e si sommavano quelle più direttamente legate alla riforma del mercato del lavoro (una disciplina dell’apprendistato; l’incremento del numero e della qualità delle scuole professionali; lo sviluppo del sistema cooperativistico, al quale affidare la costruzione di case popolari) insieme all’irrisolta questione del riconoscimento del valore collettivo, per tutti i lavoratori, dei contratti nazionali.
Va aggiunto che il problema non era costituito solo dal rapporto con le controparti, il mondo dell’impresa e alcune tra le forze politiche di governo, ma anche da quello con gli altri sindacati, a partire soprattutto dalla Cgil che perseguiva, invece, una politica di netta rottura conflittuale nei confronti delle istituzioni e del padronato.
In Italia si confrontavano due diverse linee sindacali, chiaramente contrapposte: la prima, di matrice socialcomunista, che riteneva che le lotte dei lavoratori fossero la premessa per una trasformazione radicale, in senso anticapitalistico, della società. La seconda, di ispirazione socialdemocratica, e nella quale la Uil si riconosceva pienamente, che ritrovava nel riformismo, di matrice laburista e socialdemocratica, la sua ragion d’esistere. L’essere riformisti implicava il credere che la società fosse riformabile dal suo interno.
Esisteva un’evoluzione delle comunità umane che andava indirizzata non attraverso fratture rivoluzionarie bensì con una serie di robusti interventi per la realizzazione di una democrazia sociale, basata sulle redistribuzione delle ricchezze prodotte all’interno, su una economia di mercato, non collettivista. Il resto sarebbe stata un’avventura al buio, così come poi si rivelarono, decenni dopo, quei regimi dell’Est che avevano orbitato all’ombra di Mosca nei lunghi anni del bipolarismo.
Lì, i sindacati erano solo delle cinghie di trasmissione della volontà del potere politico, brutale, autoritario e monopartitico. La frattura tra Cgil da una parte e Cisl e Uil dall’altra era – da questo punto di vista – molto netta e non permetteva facili conciliazioni di sorta. Si trattava di due diverse visioni del mondo che collidevano tra loro.
Dal sindacato socialcomunista ogni intesa con le controparti rischiava di essere letta come una “resa” alle ragioni e agli interessi dell’industria, un “vendersi ai padroni e agli americani” (questi ultimi visti come i burattinai dell’intero sistema capitalista).
Ma così facendo, ogni innovazione veniva bloccata sul nascere, ancorandola ad un giudizio di natura puramente ideologica. Per la Feneal il problema era quello di concorrere, insieme agli altri sindacati di radice riformista, all’azione rivendicativa senza per questo essere schiacciata contro il muro delle accuse di essere divenuta una organizzazione “collaborazionista”, condiscendente alle richieste delle imprese.
Non di meno, proprio perché parte di un sindacato che intendeva per davvero cambiare le cose, era per essa indispensabile cogliere quel che di nuovo e di positivo della realtà del mondo del lavoro poteva derivare. In questo ordine di problemi si collocava quindi la discussione – la prima in assoluto a livello europeo – alla quale il sindacato italiano partecipò con la conferenza europea di Copenaghen (tenutasi nel maggio del 1954) promossa dall’Internazionale dei lavoratori edili e del legno, la Filel, per «lo studio dei sistemi di pagamento degli operai dell’edilizia nelle varie nazioni».
La questione dei salari, ancora una volta, si rivelava fondamentale. Ma non meno importante era il fatto che i rappresentanti di organizzazioni nazionali, provenienti da luoghi tanto diversi, si trovassero per discutere insieme di una questione comune. La posizione italiana, contraria al pagamento a cottimo, fu chiara e netta fin dall’inizio, temendo che il cosiddetto «salario a rendimento» venisse introdotto sistematicamente in tutti i cantieri.
Tra una popolazione di lavoratori generici e scarsamente qualificati la retribuzione per unità prodotta avrebbe innescato una corsa al ribasso delle remunerazioni. L’Italia, infatti, ancora una volta si rivelava fanalino di coda, ben più indietro di altri Paesi europei, anch’essi usciti dalla guerra.
Nel nostro Paese la legislazione sociale e in sistema di relazioni industriali e sindacali avevano ancora molta strada da fare.

Claudio Vercelli