Il 22 settembre 1951 si teneva a Potenza il primo congresso della Federazione nazionale edili e affini del legno, la Feneal. I lavoratori rappresentati non erano più di seimila, ma già quel numero, nella sua apparente modestia, era il risultato di incredibili sforzi. Le confederazioni sindacali più importanti (la Cgil e la Cisl, la seconda nata poco tempo prima da una scissione dalla grande organizzazione comune, egemonizzata dall’allora Partito comunista) erano sospese tra spinte contrapposte.
Mentre il sindacato maggioritario, socialcomunista, guardava all’Unione Sovietica come ad un modello da emulare, quello cattolico si rifaceva ad un acceso confessionalismo. Insomma, tra la sezione di partito e il campanile, tra la Mosca di Stalin e la Città del Vaticano di Pio XII, poco spazio sembrava esistere per qualcosa di diverso.
Il 22 settembre 1951 si teneva a Potenza il primo congresso della Federazione nazionale edili e affini del legno, la Feneal. I lavoratori rappresentati non erano più di seimila, ma già quel numero, nella sua apparente modestia, era il risultato di incredibili sforzi. Le confederazioni sindacali più importanti (la Cgil e la Cisl, la seconda nata poco tempo prima da una scissione dalla grande organizzazione comune, egemonizzata dall’allora Partito comunista) erano sospese tra spinte contrapposte.
Mentre il sindacato maggioritario, socialcomunista, guardava all’Unione Sovietica come ad un modello da emulare, quello cattolico si rifaceva ad un acceso confessionalismo.
Insomma, tra la sezione di partito e il campanile, tra la Mosca di Stalin e la Città del Vaticano di Pio XII, poco spazio sembrava esistere per qualcosa di diverso. Le idee erano fortemente polarizzate, i contrasti molto intensi e l’ipotesi di un sindacato democratico, indipendente da queste identificazioni, sembrava avere un futuro incerto. L’intera Uil era nata dalla speranza di potere dare vita ad una organizzazione sindacale capace di soddisfare le domande di rappresentanza espresse da quanti, nel mondo del lavoro, riconoscendosi nelle posizioni del socialismo riformista, non potevano né volevano identificarsi con una delle due grandi “chiese” dominanti.
Ora la battaglia coinvolgeva anche il mondo del lavoro edile. La Feneal si presentava così al pubblico, per dire che un diverso modo di fare contrattazione e rappresentanza, sulla base dell’autonomia, era possibile.
La relazione introduttiva, tenuta da Giordano Gattamorta, un anziano militante, appartenente alla vecchia guardia sindacale, passata più o meno indenne attraverso gli anni del regime fascista, denunciava lo stato delle cose: i lavoratori edili si trovavano un po’ in tutto il Paese nelle peggiori condizioni.
Il lavoro da essi svolto era umile non solo in sé ma anche e soprattutto per le inadempienze padronali, che condizionavano non solo il presente ma impedivano qualsiasi speranza di una evoluzione verso un futuro più accettabile. Miseria materiale e povertà culturale (ad esempio, l’assoluta mancanza di preparazione professionale) si tenevano a braccetto, consegnando gli operai dei cantieri ad un destino di grandi difficoltà, se non addirittura agli stenti.
Il problema più urgente era quello di riuscire a garantire ai lavoratori e alle loro famiglie di che vivere. La qual cosa, all’epoca, significava il mettere insieme il pranzo con la cena. Questo era quindi il quadro dentro il quale la Feneal iniziava a muovere i primi passi. La ricostruzione dell’Italia, soprattutto di quella urbana, era poi consegnata all’azione di quelli che allora erano conosciuti come i «palazzinari».
Si trattava di imprenditori privati senza scrupoli, animati dalla brama di fare affari (e quindi profitti) a qualsiasi costo, costruendo palazzi di grosse dimensioni nelle grandi città senza rispettare alcuna norma, né di natura urbanistica né, tanto meno, di riguardo per le esigenze della popolazione. Non a caso è in quegli anni che nasce il problema della mancanza di abitazioni popolari, a fronte di un patrimonio edilizio in veloce crescita.
La Feneal doveva così iniziare a difendere gli interessi di lavoratori deboli e privi di una coscienza contrattuale. Si trattava di rappresentarne le istanze dal momento in cui loro stessi non erano quasi consapevoli di avere dei diritti da tutelare e vedere riconosciuti. Nel 1952 un primo passo fu finalmente fatto con la firma del contratto collettivo nazionale.
La Feneal lo sottoscrisse per la Uil, insieme alle omologhe associazioni sindacali di categoria della Cgil e della Cisl. Il contratto riguardava direttamente quasi un milione di addetti all’industria dell’edilizia ma, per estensione, interessava anche il vasto indotto che a metà degli anni Cinquanta coinvolgeva un numero sempre maggiore di persone.
Nel testo degli accordi venivano riconosciuti il lavoro straordinario, notturno e festivo, la natura disagiata di determinate prestazioni, il cottimo e le indennità speciali, la copertura per i lavori svolti fuori zona e così via. Ad alcuni, oggi, tali aspetti parranno delle ovvietà ma allora erano il risultato di una lungo, tenace e spossante braccio di ferro. Il contratto del 1952, già di per sé premiante, fu però segnato da una innovazione assoluta, destinata a pesare una volta per sempre, di lì in avanti: la costituzione delle casse edili, nate per gestire, per conto dei lavoratori, le somme di denaro accantonate a loro futuro beneficio.
Non di meno il problema della formazione iniziava ad essere affrontato con l’introduzione delle scuole edili, destinate a soddisfare quel principio elementare, il più delle volte eluso, della preparazione al lavoro: non solo sapere come fare una cosa ma anche il perché farla. Si trattava nell’uno e nell’altro caso, per le casse come per le scuole, di una battaglia di dignità, oltre che di necessità
Claudio Vercelli