La mancata razionalizzazione dei primi anni Settanta

La mancata razionalizzazione dei primi anni Settanta

Con la prima metà degli anni Settanta si impose nei fatti un intervento di razionalizzazione nel settore dell'edilizia abitativa. Il Paese scontava almeno un ventennio di evoluzione perlopiù incontrollata.
I pallidi tentativi riformisti di mettere mano al settore, imponendo una crescita urbana rispettosa dei parametri di buon senso, prima ancora che di precise scelte di indirizzo progettuale, si erano spesso infranti contro lo scoglio delle resistenze dei robusti settori dell'imprenditoria conservatrice. In ciò spalleggiata da una parte del mondo politico, soprattutto quello collocato a destra. Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta, l'«autunno caldo», la crisi del settore e le sue ristrutturazioni erano però ora subentrati come fattori che chiedevano un riordino nonché il riequilibrio generale del comparto. In questo contesto generale, dove veniva finalmente varato anche lo Statuto dei lavoratori, prese fiato un nuovo disegno di riforma della casa. In parte esso recuperava quanto già ipotizzato nei decennio precedente, e quindi inattuato, mentre in parte introduceva nuovi elementi.

Con la prima metà degli anni Settanta si impose nei fatti un intervento di razionalizzazione nel settore dell’edilizia abitativa. Il Paese scontava almeno un ventennio di evoluzione perlopiù incontrollata.
I pallidi tentativi riformisti di mettere mano al settore, imponendo una crescita urbana rispettosa dei parametri di buon senso, prima ancora che di precise scelte di indirizzo progettuale, si erano spesso infranti contro lo scoglio delle resistenze dei robusti settori dell’imprenditoria conservatrice. In ciò spalleggiata da una parte del mondo politico, soprattutto quello collocato a destra. Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta, l’«autunno caldo», la crisi del settore e le sue ristrutturazioni erano però ora subentrati come fattori che chiedevano un riordino nonché il riequilibrio generale del comparto. In questo contesto generale, dove veniva finalmente varato anche lo Statuto dei lavoratori, prese fiato un nuovo disegno di riforma della casa. In parte esso recuperava quanto già ipotizzato nei decennio precedente, e quindi inattuato, mentre in parte introduceva nuovi elementi.

La mancata razionalizzazione dei primi anni Settanta

Con la prima metà degli anni Settanta si impose nei fatti un intervento di razionalizzazione nel settore dell’edilizia abitativa. Il Paese scontava almeno un ventennio di evoluzione perlopiù incontrollata.
I pallidi tentativi riformisti di mettere mano al settore, imponendo una crescita urbana rispettosa dei parametri di buon senso, prima ancora che di precise scelte di indirizzo progettuale, si erano spesso infranti contro lo scoglio delle resistenze dei robusti settori dell’imprenditoria conservatrice. In ciò spalleggiata da una parte del mondo politico, soprattutto quello collocato a destra. Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta, l’«autunno caldo», la crisi del settore e le sue ristrutturazioni erano però ora subentrati come fattori che chiedevano un riordino nonché il riequilibrio generale del comparto. In questo contesto generale, dove veniva finalmente varato anche lo Statuto dei lavoratori, prese fiato un nuovo disegno di riforma della casa. In parte esso recuperava quanto già ipotizzato nei decennio precedente, e quindi inattuato, mentre in parte introduceva nuovi elementi.
Prescindendo dai fattori congiunturali che avevano portato alla crisi della seconda metà degli anni Sessanta, il meccanismo della crescita dell’industria delle costruzioni, pur avendo poi recuperato ancora dei margini di evoluzione, con il nuovo decennio aveva mostrato tutte le difficoltà in cui versava strutturalmente.
L’unico settore aperto a sviluppi ulteriori era, per l’iniziativa privata, il mercato dell’edilizia economico-popolare, rimasto su più versanti ancora scoperto. In tale quadro, assai problematico, parve quindi possibile coniugare le difficoltà nelle quali si trovava il mercato ad una risposta invece orientata dall’intervento pubblico verso mete di razionalizzazione dell’offerta.
Si trattava di congiungere una parte del circuito delle imprese private al sostegno pubblico con l’intervento sia finanziario che tecnologico dello Stato. In quest’ultimo caso, strategico sarebbe risultato il ruolo delle imprese a partecipazione statale, le uniche in grado di offrire concretamente economie di scala produttiva, risorse e tecnologie orientate verso l’obiettivo di fondo, ossia lo spostare una volta per sempre gli equilibri, nell’asse tra profitto e rendita, a favore del primo. L’intenzione poteva tradursi in fatti concreti, tuttavia, solo se si fosse proceduto ad una regolamentazione del regime delle aree edificabili e a una graduale trasformazione degli orientamenti di fondo della produzione e della struttura stessa del mercato edilizio.
Due elementi su cui le componenti padronali più intransigenti erano poco o nulla disposti a derogare. Di fatto, il cosiddetto piano di «riforma della casa» si articolò temporalmente in due anni, compresi tra lo sciopero generale del novembre del 1969 e la concreta approvazione della legge, avvenuta in Parlamento nell’autunno del 1971.
Ne derivarono un complesso di norme che prevedevano, tra le altre cose, l’istituzione di una gestione unitaria dei fondi dell’edilizia economico-popolare attraverso il varo del Comitato per l’edilizia residenziale e la progressiva eliminazione degli enti pubblici edili, locali e nazionali, come la Gescal, l’Incis e così via; la definizione di modalità di esproprio delle aree edificabili che non prescindevano dal riferimento alla rendita di posizione ma, attraverso indennità di esproprio moltiplicative del valore dei suoli, in relazione alla maggiore o minore vicinanza ai centro storici, per la prima volta riconoscevano il plusvalore derivato dalle aree edificabili per effetto della loro localizzazione urbana; la determinazione del regime delle aree espropriate, che consentiva la loro cessione anche ai privati, sotto forma di concessione o in proprietà, sia che essi fossero persone individuali o cooperative; l’istituzione dell’edilizia convenzionata, che consentiva interventi, in associazione tra enti locali e imprese, vincolati all’obiettivo di dare corpo ad abitazioni ad edilizia di tipo economico, sia per l’affitto che per la vendita; lo stanziamento di circa 2.500 miliardi di lire per il sostegno dell’intervento pubblico, con l’obiettivo di realizzare, nel triennio 1971-73, 250mila abitazioni. Questi ed altri provvedimenti confluirono quindi nella legge 865, licenziata nell’ottobre del 1971, riguardante i «programmi e il coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; le norme sull’espropriazione per pubblica utilità; le modifiche e le integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; l’autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata».
Nel suo complesso le norme contenutevi presentavano aspetti tra di loro in aperta contraddizione.
Se da un lato si formulava la necessità di dare corso ad un ampio intervento di edilizia popolare, il proposito veniva da subito mitigato dalla scelta di non colpire seccamente la rendita fondiaria, lasciando inoltre alla mera logica privatistica la realizzazione di progetti che avrebbero invece richiesto un più chiaro intervento pubblico. Inoltre quest’ultimo, anche laddove sussistesse, veniva ancora una volta subordinato ai tempi dell’amministrazione pubblica, estremamente dilatati rispetto alle esigenze dei potenziali destinatari.
Più in generale, pesava sull’intera operazione il vincolo della ristrutturazione del circuito di enti che avrebbero dovuto fare fronte alle esigenze raccolte nella legge stessa. Sul versante dei costruttori, l’indisponibilità fu, ancora una volta, netta, a parte pochissime eccezioni. A qualsiasi istanza riformista si contrapponeva invece l’ossessiva richiesta di interventi congiunturali e anticiclici, nella convinzione che nulla di progettuale dovesse avere corso. Così, accavallandosi alle disposizioni della 865, si accompagnavano le misure previste da un’altra legge, la 291, che prevedevano la proroga indiscriminata delle agevolazioni fiscali scadute nel mentre, oltre ad una serie di misure di snellimento nelle procedure di appalto delle opere pubbliche, il rifinanziamento della legge 1179 del 1965 e, infine, l’abrogazione delle limitazioni previste dalla legge ponte in materia all’approvazione dei piani regolatori.
In buona sostanza, si trattava di un sostegno all’attività edilizia in deroga all’innovatività delle legge di riforma. Mentre la 291 divenne immediatamente operativa, ottenendo da subito i decreti attuativi, la 865 fu tradotta in fatti concreti solo un quinquennio dopo. Sul versante del lavoro, le conquiste salariali avvenute con l’onda lunga dell’autunno sindacale del 1969 non avevano inciso oltre misura sul costo della manodopera, permettendo di fatto un mero recupero del blocco salariale verificatosi nei cinque anni precedenti, tra il 1964 e il 1968. Un fattore che invece presentava criticità diffuse era il pesante e persistente ricorso, nonostante i processi di ristrutturazione dei cantieri e la meccanizzazione delle attività, all’utilizzazione estensiva della forza lavoro. Un segno, questo, che il divario tecnologico rimaneva ancora elevato all’interno del mondo dell’edilizia italiana. Il quale sembrava volere continuare ad operare secondo logiche tradizionali, superate dall’evoluzione del quadro europeo. Peraltro i costruttori lamentavano crescenti difficoltà, attribuendole all’aumento del costo del lavoro.
In tale modo, il mancato incremento di produttività era spostato interamente sul versante dei lavoratori. Qualsiasi intervento di innovazione sistematica del settore, tuttavia, avrebbe richiesto una visuale completamente differente. Le resistenze all’attuazione della legge 865 rivelavano uno spirito non solo conservatore ma regressivo, impedendo di investire nel settore che più si rivelava promettente, quello dell’edilizia popolare. Una cosa che per realizzarsi avrebbe invece implicato non solo un rinnovamento tecnologico, che era ancora ben lontano dal realizzarsi, ma anche un più ampio intervento pubblico, capace di assicurare progettualità e continuità, nonché un ridimensionamento dell’onnipresente rendita fondiaria. La scelta che fu fatta dai costruttori si orientò ad una riorganizzazione del lavoro che comportò concretamente il decremento degli occupati.
La serie storica, al riguardo, indica che a fronte di 1.902.700 occupati nel 1967, cifra che due anni dopo era salita a 1.970.500, nel 1972 l’insieme dei lavoratori edili era di 1.810mila. Alla breve fase di incremento occupazionale del biennio 1968-69, che tuttavia non aveva permesso di raggiungere i livelli toccati fino al 1963, con il 1970 era subentrata di nuovo una secca decrescita. Ancora una volta i meccanismi del subappalto e del cottimo furono quindi ampiamente utilizzati per abbattere i costi del lavoro, soprattutto nelle lavorazioni in cemento armato e nelle murature, sostituendo i dipendenti con lavoratori esterni. Questo quadro interno ai cantieri si saldava agli squilibri di fondo del sistema edilizio, il cui carattere dominante rimaneva quello privatistico. Negli anni Sessanta, a fronte di una composizione degli investimenti fissi lordi nell’industria italiana che attribuiva il 64,6% al settore privato e il restante 35,4% a quello pubblico, nelle costruzioni il rapporto era rimasto radicalmente diverso, laddove la parte pubblica non arrivò mai a superare il 7%, molto spesso rimanendo addirittura al di sotto di esso. Non di meno, l’allocazione del costruito solo in parte minore era attribuita ai fruitori finali (coloro che vi avrebbero abitato), in affitto o in acquisto, essendo per due terzi invece acquistato da risparmatori, piccoli e grandi, a fini di investimento speculativo. Le spaccature sociali si misuravano inoltre sul fatto che ad andare in affitto era perlopiù i percettori di reddito fisso, all’80% lavoratori dipendenti e pensionati, mentre la massa prevalente dei proprietari era composta da lavoratori autonomi. L’accesso al credito rimaneva una chimera per chi non potesse offrire garanzie che a molti erano precluse.
Non si trattava solo di una questione di generico “ritardo”. Di fatto in Italia l’accesso all’abitazione indipendente era ancora una prerogativa per gruppi selezionati della popolazione, facendo sì – nel medesimo tempo – che i loro interessi si incontrassero con quelli dei costruttori, fatto che dava corpo ad un blocco conservatore la cui forza rimaneva tangibile, riflettendosi poi anche negli equilibri politici di lungo periodo.

Claudio Vercelli