Il quinto Congresso nazionale della Feneal costituì un momento di passaggio significativo per il sindacato degli edili. Di fatto chiuse una lunga stagione pioneristica, quella che si era inaugurata quasi vent'anni prima, con il 1951, all'atto della sua fondazione, ora giunta a maturazione attraverso le trasformazioni che avevano attraversato il Paese, attraverso la centralità che il lavoro aveva assunto non solo sul piano economico ma anche politico.
La dialettica tra organizzazioni dei lavoratori e partiti era adesso molto intensa.
Il quinto Congresso nazionale della Feneal costituì un momento di passaggio significativo per il sindacato degli edili. Di fatto chiuse una lunga stagione pioneristica, quella che si era inaugurata quasi vent’anni prima, con il 1951, all’atto della sua fondazione, ora giunta a maturazione attraverso le trasformazioni che avevano attraversato il Paese, attraverso la centralità che il lavoro aveva assunto non solo sul piano economico ma anche politico.
La dialettica tra organizzazioni dei lavoratori e partiti era adesso molto intensa.
Il quinto Congresso nazionale della Feneal costituì un momento di passaggio significativo per il sindacato degli edili. Di fatto chiuse una lunga stagione pioneristica, quella che si era inaugurata quasi vent’anni prima, con il 1951, all’atto della sua fondazione, ora giunta a maturazione attraverso le trasformazioni che avevano attraversato il Paese, attraverso la centralità che il lavoro aveva assunto non solo sul piano economico ma anche politico.
La dialettica tra organizzazioni dei lavoratori e partiti era adesso molto intensa.
L’unità sindacale, che non comportava nessuna unificazione – laddove semmai le tre maggiori sigle esprimevano un’identità soggettiva sempre più accentuata – ma portava al superamento della competizione intestina e al coordinamento sia delle iniziative rivendicative che dell’azione contrattuale, era da questo punto di vista la vera chiave di volta nella presenza sociale, diffusa, del movimento dei lavoratori nella società italiana. Data infatti a quel periodo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando più intensa fu la partecipazione della collettività nelle richieste di cambiamento, la formulazione di un’idea di sindacato non solo come soggetto economico ma in quanto figura compartecipe del mutamento politico.
Per la Cgil e la Cisl, maggiormente legate, per la loro stessa storia, ai specifici partiti di riferimento, così come a culture politiche definite, si trattava di rielaborare il legame con il mondo della politica, dando maggiore autonomia e respiro alla propria fisionomia organizzativa.
Per la Uil, e di riflesso per la stessa Feneal, che pur si rifacevano ad un’area politica che si riconosceva nel riformismo e nella laicità, la trasversalità dei legami ribaltava il senso del discorso: la questione non era come e quanto essere distinti da qualcuno o qualcosa già esistenti ma il mantenere e il rinforzare uno scambio con partiti e movimenti variamenti articolati.
Per il sindacato nel suo insieme, sottoposto al movimento tellurico della contestazione, dell’«autunno caldo» del 1969, delle prime, timide riforme istituzionali, che poi negli anni Settanta avrebbero preso vigore, si trattava di una sfida non da poco. Peraltro, e ci si sarebbe accorti del fatto in sé solo molto tempo dopo, il giro di boa del decennio sarebbe stato segnato anche dai primi processi di trasformazione economica che, vent’anni dopo, si sarebbero manifestati nella loro potenza con il declino del sistema di produzione fordista in Italia.
È proprio in quel periodo di tempo, infatti, che le imprese iniziano, passo dopo passo, a delocalizzare le loro produzioni. La cristallizzazione politica e ideologica del mondo nel bipolarismo tra un Est di rigida osservanza comunista e un Occidente collocato sull’asse di Washington, con in mezzo in Paesi in via di sviluppo, sembrava lasciare poco o nessun spazio a trasformazioni globali degli assetti produttivi.
Il mercato del lavoro, in Italia, da sempre insufficiente rispetto alla domanda, alla quale si era risposto con l’emigrazione in massa verso l’estero, sembrava ora invece sufficientemente stabilizzato. L’edilizia, malgrado le trasformazioni che l’avevano investita, continuava ad essere considerata un po’ il “parente povero” di altri comparti dell’industria, a partire da quello metalmeccanico, che avevano assunto da tempo un ruolo generalizzato di traino dell’economia nazionale.
La redditività dell’impresa edile continuava a derivare, d’altro canto, da alcuni fattori che ne segnavano anche la scarsa competitività rispetto ad altri settori: accentuata divisione del lavoro, frazionamento delle unità produttive, scarsa propensione all’investimento tecnologico.
I dati del quinto censimento generale dell’industria e del commercio, tenutosi nel 1971, indicano, rispetto a dieci anni prima, un aumento vertiginoso delle imprese nell’industria delle costruzione, pari al 123%, a fronte di un risibile incremento dell’occupazione (corrispondente allo 0,3%). L’aumento nel numero delle imprese aveva interessato in maniera pressoché esclusiva quelle di piccolissime dimensione (non oltre i nove dipendenti), passate dal 66,5% del 1961 all’83,8% del 1971, arrivando a occupare il 30,9% degli addetti del comparto (dieci anni prima questi ultimi erano solo il 15,7%).
A tale tendenza faceva da contrappunto la caduta del peso complessivo delle piccole aziende (da 10 a 49 elementi impiegati) come di quelle medio-piccole (da 50 a 499 addetti), nel loro insieme dimezzatesi, passando dal 33,4% al 16%. L’occupazione era quindi calata, in questo caso, riguardando solo il 60,9% del totale della forza lavoro in edilizia (di contro al 74,4% del 1961). A grandi linee la tendenza che andava in tale modo manifestandosi era esattamente opposta a quella che si era registrata nei decenni precedenti.
Se tra il 1951 e il 1961 si erano verificati processi di concentrazione, negli anni Sessanta il trend aveva assunto una scansione diversa. A fine del decennio, la dimensione media delle imprese era passata da 17 addetti a 7,6. Una tendenza confermata dai dati relativi alle medie e grandi imprese (dai 500-1000 addetti in su), dove se nel 1961 era impegnato l’9,8% dell’intera forza lavoro, nel 1971 non si superava l’8,2%.
Nel loro complesso i dati del censimento confermavano la fortissima diffusione della pratica del frazionamento dell’unità produttiva attraverso la generalizzazione del subappalto e la creazione di una vera e propria filiera imprenditoriale composta da padroncini e piccole aziende, fortemente instabili, in tutto e per tutto dipendenti dai grandi commissionari d’appalto.
L’area di mezzo, quella delle medio-piccole imprese, sembrava essersi contratta a favore dei due estremi. Un fatto, quest’ultimo, che non poteva non riflettersi sulla composizione della forza lavoro e, più in generale, sulla struttura del mercato edile. I dati registrano chiaramente il fatto in sé: emerge infatti l’ampliamento della presenza di lavoratori inquadrata con qualifiche superiori (gli specializzati aumentavano del 5,9% e i qualificati del 5,2%), mentre i manovali diminuivano del 16,2%. Anche questa tendenza raccoglieva il senso del mutamento avvenuto nell’edilizia italiana, sia sul piano tecnico-organizzativo sia sul versante dei contenuti professionali. Nella categoria degli operai specializzati venivano ora inquadrate le mansioni legate al cemento armato, sempre più diffuso, mentre l’attività artigianale, dotata di una maggiore autonomia creativa ma spesso anche non riconosciuta sia sul piano dell’inquadramento che sul versante retributivo, subiva un decremento. Si era quindi agevolato in tal modo l’accesso alla qualifica superiore di quella grande parte della manodopera impiegata in mansioni non unitarie ma comunque caratterizzata nelle sue prestazioni da forti elementi di competenza professionale e con un discreto margine decisionale.
Nel complesso, la suddivisione delle qualifiche censite al 1971, risultava essere così articolata: per le categorie speciali 5.857 elementi, pari allo 0,9% della forza lavoro edile; gli operai specializzati erano 119.858 (18,5%); gli operai qualificati, invece, 205.608 (31,7%), costituendo la componente più corposa del settore; gli operai comuni e i manovali specializzati erano 141.760 (21,9%); i manovali comuni, 153.243 (23,6%); gli apprendisti, 19.017 (3%); i sorveglianti, i custodi, gli addetti ai servizi 2.244 (0,3%). La categoria degli operai qualificati di fatto svolgeva mansioni equivalenti o equiparabili a quelle degli operai specializzati, laddove erano richieste competenze tecniche a carattere esecutivo, all’interno di un sistema produttivo fortemente parcellizzato. Il decremento dei manovali comuni era stato accentuato dalla progressiva scomparsa delle mansioni di fatica legate ai trasporti nei luoghi di produzione.
Un fatto, questo, che faceva seguito ai processi di meccanizzazione e razionalizzazione del lavoro, intensificatisi nel decennio appena concluso, dove molte imprese avevano acquisito una pratica autonoma dell’intero percorso produttivo. In altre parole, riuscivano a soddisfare da sé le sue diverse fasi, senza dovere esternalizzarne le componenti. La qual cosa permetteva loro di realizzare economie di scala basate non sull’incremento di occupazione ma sulla messa a massimo profitto delle professionalità dei lavoratori già inseriti in organico.
L’analisi del sistema produttivo edile, che rivelava il nesso tra frammentazione delle imprese (ossia loro decremento di dimensioni accompagnato da un aumento di numero), l’autonomizzazione delle diverse fasi della costruzione e l’incremento della produttività del lavoro, rivelava la capacità di adattamento dell’edilizia italiana alle rinnovate condizioni di mercato ma anche il fatto che il peso maggiore, la parte più rilevante dei costi, continuava ad essere sostenuta dalla forza lavoro. Il sistema della contrattazione zoppicava dinanzi a questo scenario in perenne trasformazione, inseguendo i mutamenti ma riuscendo solo a registrarne gli effetti, non a gestire gli indirizzi. Trovando peraltro nella controparte datoriale quasi sempre un muro di totale indisponibilità.
L’edilizia, all’interno di un circuito economico nazionale ed europeo che conosceva andamenti altalenanti, aveva consolidato e rafforzato la sua funzione industriale, assumendo in alcuni casi la natura di polmone anticiclico. Di fatto, essa costituiva il settore al quale l’eccedenza di manodopera degli altri ambiti industriali continuava a fare ricorso in attesa di potersi muovere (o tornare) verso categorie ritenute più “evolute” e anche più premianti sul piano retributivo. Dopo di che l’immenso capitale di competenze e di cognizioni costituito dalla forza lavoro specializzata, che proprio nel settore delle costruzioni a tutt’oggi rimane una specificità insuperata, faticava a trovare un’adeguata rappresentanza da parte delle stesse organizzazioni sindacali.
Benché nel ciclo dell’edilizia si fossero introdotti elementi di standardizzazione, legati alla sua sempre più accentuata meccanizzazione, al lavoro in squadra, alle turnazioni flessibili, in altre parole malgrado il processo di produzione fordista in atto, la competenza dei singoli operai rimaneva il valore che faceva la differenza nella qualità (e nei tempi di consegna) del prodotto. Cosa che i titolari d’impresa si guardavano bene dal riconoscere. E che poneva alle organizzazione sindacali la sfida di rappresentare una categoria unita nelle sue diversità di competenze.
Claudio Vercelli