Metà anni Cinquanta: la Feneal consolida la sua presenza nel Paese

Metà anni Cinquanta: la Feneal consolida la sua presenza nel Paese

Nella seconda metà degli anni Cinquanta la Feneal (non meno che la stessa Uil), andò consolidando la sua organizzazione e la sua presenza nel paese. Un primo, importante segno che il sindacato dei lavoratori edili stava conoscendo un passaggio fondamentale, quello che lo avrebbe portato dal costituire una associazione minoritaria - presente solo in alcune aree del gigantesco mondo dei lavoratori delle costruzioni - al divenire una struttura portante del medesimo, ponendo le richieste e i bisogni da esso espressi nei termini della contrattazione permanente con i datori di lavori, si registrò nel febbraio del 1956. In quel mese, infatti, a Roma si tenne un rilevante convegno sull'antinfortunistica.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta la Feneal (non meno che la stessa Uil), andò consolidando la sua organizzazione e la sua presenza nel paese. Un primo, importante segno che il sindacato dei lavoratori edili stava conoscendo un passaggio fondamentale, quello che lo avrebbe portato dal costituire una associazione minoritaria – presente solo in alcune aree del gigantesco mondo dei lavoratori delle costruzioni – al divenire una struttura portante del medesimo, ponendo le richieste e i bisogni da esso espressi nei termini della contrattazione permanente con i datori di lavori, si registrò nel febbraio del 1956. In quel mese, infatti, a Roma si tenne un rilevante convegno sull’antinfortunistica.

Metà anni Cinquanta: la Feneal consolida la sua presenza nel Paese

Nella seconda metà degli anni Cinquanta la Feneal (non meno che la stessa Uil), andò consolidando la sua organizzazione e la sua presenza nel paese. Un primo, importante segno che il sindacato dei lavoratori edili stava conoscendo un passaggio fondamentale, quello che lo avrebbe portato dal costituire una associazione minoritaria – presente solo in alcune aree del gigantesco mondo dei lavoratori delle costruzioni – al divenire una struttura portante del medesimo, ponendo le richieste e i bisogni da esso espressi nei termini della contrattazione permanente con i datori di lavori, si registrò nel febbraio del 1956. In quel mese, infatti, a Roma si tenne un rilevante convegno sull’antinfortunistica.
Organizzato con la collaborazione dell’Enfap, l’ente per la formazione professionale della Uil, fu l’occasione nella quale, per la prima volta dalla fine della guerra, con dimensioni così ampie, politici e operatori del settore si trovarono a confrontarsi sul drammatico fenomeno degli infortuni sul lavoro.
Erano presenti l’allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale Ezio Vigorelli, il sottosegretario del medesimo dicastero Umberto Delle Fave, i presidenti dell’Inail e dell’Enpi, gli istituti preposti alla tutela degli infortunati oltre, ovviamente, ad un grande numero di sindacalisti, studiosi, ricercatori impegnati nel campo. Il problema, peraltro, era di grandi dimensioni: nei soli sei primi mesi del 1955, in Italia, si erano registrati 272.300 incidenti nel settore indistintamente definito come “industriale”. Buona parte di essi erano ascrivibili al comparto edile.
Non di meno, il sospetto diffuso era che in realtà le cose andassero ancora peggio di quanto già si era a conoscenza, ovvero che molti fossero gli infortuni non denunciati. Segno, quest’ultimo, non tanto di un occasionale malcostume bensì di una diffusa omertà, che consegnava i lavoratori alla mercé di quanti li utilizzavano come parti intercambiabili di un sistema dove le persone non avevano alcuna dignità, riducendosi ad essere semplice forzalavoro.
Peraltro, le disposizioni legislative in materia risalivano al 1889. Il fascismo, da questo punto di vista, si era ben guardato dall’assumere qualsiasi iniziativa a tutela di un settore considerato come “territorio riservato” per quella parte del padronato che, con la massima disinvoltura, agiva in regime di assoluto arbitrio. Il convegno della Feneal coincideva con l’entrata in vigore di una nuova legge antinfortunistica, che cercava di mettere argine ad una situazione di fatto fino a quel momento abbandonata colpevolmente a sé.
Per il sindacato la protezione fisica dei lavoratori, nel momento in cui svolgono le loro mansioni, non rispondeva solo ad elementari esigenze di tutela della vita e della sua dignità ma era parte di una più generale concezione della società basata sulla solidarietà per mezzo del lavoro e tra i lavoratori.
Si trattava, in altri termini, di una imprescindibile questione di ordine sociale e morale, all’interno della quale si realizzava l’azione del movimento dei rappresentanti dei lavoratori. Dal convegno del febbraio del 1956, che raccolse l’attenzione della stampa nazionale, avendo un’ampia eco sugli organi di informazione, emersero le linee guida di intervento della Feneal per gli anni a venire.
Per sommi capi si riassumeva in alcuni passaggi fondamentali: la definizione di linee unitarie nelle politiche antinfortunistiche e di prevenzioni, da adottare come piattaforma di contrattazione e rivendicazione ma anche da proporre in tutto il paese, evitando che si formassero situazioni a “macchia di leopardo” (con province e regioni coperte ed altre, invece, lasciate a sé); la presenza dei rappresentanti del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni negli organismi preposti alla tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori; la possibilità per i tecnici specializzati in materia di prevenzione di potere accedere ai cantieri e alle officine, verificando dal vivo le effettive condizioni di lavoro; la formazione, a ciclo continuo, dei lavoratori, da sensibilizzare (e non paia oggi un paradosso) sui loro stessi interessi e sui loro diritti; la diffusione, a partire dalle scuole, di una “cultura della prevenzione e della sicurezza” basata non solo sull’ovvio presupposto che è morale difendere la dignità della vita di chi lavora ma che è nell’interesse della società stessa diminuire il più possibile il numero di invalidi; la equiparazione, sia in termini finanziari come nella scala delle priorità degli interventi, del tema delle prevenzione a quelli dello sviluppo organizzativo e tecnologico delle imprese edili.
Non si trattava quindi di dare corso a evidenze e di ovvietà ma di far muovere i primi passi ad una cultura del lavoro che permettesse di superare la concezione “stracciona” che il fascismo stesso aveva concorso a diffondere, dove i cantieri erano considerati un luogo nel quale la legge poteva benissimo latitare.
Di questa idea miseranda della prestazione d’opera degli operai delle costruzioni, si era incaricato di farsene carico, per l’evidente vantaggio che da ciò gliene derivava, quel ceto imprenditoriale di costruttori, i “palazzinari” dei quali già abbiamo parlato nelle passate puntate della nostra storia, e che ora, in pieno boom delle costruzioni, riempivano le città d’Italia di cantieri sentendosi fuori da qualsiasi obbligo che non fosse il loro diretto tornaconto. Ricordiamo ancora una volta, quindi, che le richieste del sindacato non erano teoria e un insieme di buoni propositi bensì esigenze sentite oramai come inderogabili.
Di lì a poco, infatti, le cose si incaricarono di dimostrarlo, e duramente. Nella primavera del 1956, infatti, a fronte di un notevole aumento nella costruzione di abitazioni di civile residenza si era verificata una secca diminuzione delle giornate-operaio. Si edificava di più con tempi molto più ridotti, senza aumentare la manodopera. In altre parole, ne era derivato un vertiginoso aumento della produttività oraria del lavoro, alla quale però non solo non era seguita una adeguata compensazione economica ma, soprattutto, si era inesorabilmente accompagnato un ulteriore incremento degli infortuni. Si imponeva quindi una svolta, e anche radicale, rispetto a cantieri che sorgevano un po’ come funghi senza però dare nessuna garanzia a chi doveva lavorarci dentro. C’era, come si è ricordato, una legge nuova di zecca ma ancora di più c’era la disposizione d’animo di molti imprenditori di fare come se questa non esistesse.
Nei posti di lavoro, poi, i cantieristi molto spesso non godevano di alcuna tutela sindacale, essendo dissuasi in ciò dai loro datori di lavoro, con le lusinghe come, molto più spesso, con le minacce se non addirittura con vessazioni di ogni sorta. C’erano tutte le premesse per uno scontro sociale, moltiplicato nei suoi potenziali effetti dal fatto che molti titolari di grandi imprese continuavano a fare orecchie da mercante alle richieste provenienti, a questo punto, non solo dal sindacato ma anche da alcuni esponenti politici.
La Feneal, così come gli altri sindacati dell’edilizia, avanzò quindi la richiesta di anticipare l’apertura delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, che sarebbe comunque scaduto alcuni mesi dopo. I punti qualificanti, al riguardo, erano pochi ma chiari: più sicurezza; una nuova struttura salariale che tenesse in considerazione il mutamento del lavoro medesimo (con l’introduzione di nuove tecnologie); una maggiore compartecipazione alla divisione dei profitti derivanti dall’incremento generalizzato di produttività. Nello specifico il tutto si traduceva in una piattaforma articolata, condivisa dai sindacati di settore.
Si trattava di regolamentare i cottimi attraverso tariffe provinciali, di modificare gli orari di lavoro, di istituire un “premio di maggiore produzione”, di costituire la Cassa assistenza e per le scuole professionali, di migliorare le condizioni igienico-sanitarie dei posti di lavoro (il più delle volte al di sotto della soglia minima di tollerabilità).
Non di meno, si trattava di colmare il differenziale retributivo tra edili e altri comparti: se lo stipendio annuo di un manovale di cantiere non superava le 300.000 lire, quello di un manovale industriale era superiore di almeno il 50 per cento. La risposta ultimativa all’insieme delle richieste da parte imprenditoriale, nell’aprile del 1957, fu di una sordità impressionante. Si arrivò così alla rottura delle trattative. Ma lo scenario era mutato.
Ancorché in condizione diversa da quella dei colleghi metalmeccanici – tra di loro uniti da sempre dal fatto di lavorare insieme nelle grandi officine – i lavoratori edili, pur parcellizzati in molti posti di lavoro, erano ora una forza capace di mobilitarsi.
Il 10 e l’11 giugno 1957, infatti, 800.000 operai dei cantieri incrociarono le braccia.
Era lo sciopero generale dell’edilizia. A conti fatti si trattò di una straordinaria manifestazione di forza e di dignità in un decennio, quello degli anni Cinquanta, dove le lotte operaie e le rivendicazioni erano andate affievolendosi, soprattutto a causa delle divisioni interne alle sinistre.
Quei lavoratori che erano da tanti reputati come i “figli di un dio minore” chiedevano ora di essere considerati per quel che erano: esseri umani, non merce.

Claudio Vercelli