A metà degli anni Sessanta il segno della crisi nell’edilizia era dato anche dal decremento degli investimenti pubblici. Se nel decennio precedente – anni di conclusione del processo di ricostruzione del patrimonio abitativo dopo la bufera della guerra – questi ammontavano al 25% del volume generale delle attività, dieci anni dopo erano crollati al 5%. Il meccanismo dell’intervento statale si era inceppato.
Fatto, quest’ultimo, che incideva sulla condizione di crisi in cui si trovavano molti cantieri. I sindacati avevano come interlocutore diretto l’allora ministro socialista dei Lavori pubblici Giacomo Mancini. Le proposte che erano state avanzate ruotavano intorno a tre punti cardine.
A metà degli anni Sessanta il segno della crisi nell’edilizia era dato anche dal decremento degli investimenti pubblici. Se nel decennio precedente – anni di conclusione del processo di ricostruzione del patrimonio abitativo dopo la bufera della guerra – questi ammontavano al 25% del volume generale delle attività, dieci anni dopo erano crollati al 5%. Il meccanismo dell’intervento statale si era inceppato.
Fatto, quest’ultimo, che incideva sulla condizione di crisi in cui si trovavano molti cantieri. I sindacati avevano come interlocutore diretto l’allora ministro socialista dei Lavori pubblici Giacomo Mancini. Le proposte che erano state avanzate ruotavano intorno a tre punti cardine.
Il primo di essi, rivolto alle opere pubbliche, chiedeva l’assunzione e l’attuazione di procedure eccezionali per la realizzazione di opere concernenti l’impianto di servizi di prima urbanizzazione nelle zone di edilizia economica e popolare. Si chiedeva al ministro competente di istituire un finanziamento diretto ai Comuni attraverso la costituzione di un fondo di rotazione, di almeno cento miliardi, per le spese necessarie alle opere di prima urbanizzazione previste dai piani della legge 167 approvata nel 1962 e relativa alle aree per l’edilizia economica e popolare. Inoltre si sollecitava l’intervento dello Stato a garanzia di tutte le pratiche di mutuo per gli enti locali e per gli esecutori dei lavori in loro conto, nonché il finanziamento diretto, a progetto approvato, per tutte le opere effettivamente appaltabili (secondo i dettami della legge 589).
Il secondo punto era relativo all’edilizia convenzionata, con l’accelerazione degli appalti Gescal, il fondo destinato alla costruzione e all’assegnazione di case ai lavoratori, nato nel 1963 dalla trasformazione del Piano Ina-casa. Più in generale, si riteneva inderogabile non solo l’utilizzo di tutte le risorse disponibili nei fondi di intervento, ma anche la creazione di sostegni al credito e per la concessione di mutui in accordo ai parametri indicati dalle norme vigenti sull’edilizia sovvenzionata, meglio conosciute come legge 1460. Riguardo alla medesima si prospettava poi la possibilità di procedere agli espropri per costruzioni, laddove essi erano previsti o concessi a norma di diritto. Il terzo punto, infine, rinviava all’edilizia privata. L’obbiettivo, in questo caso, per la Feneal come per gli altri sindacati degli edili, era l’orientamento degli investimenti verso standard più funzionali agli effettivi bisogni della popolazione. In tal senso, agevolazioni creditizie venivano richieste per quei privati che avessero investito seguendo i criteri previsti dalla legge 167. In favore delle piccole e delle medie imprese, soggetti tra i più diffusi nel mercato del mattone, si intendeva ottenere sia facilitazioni creditizie che la costituzione di consorzi in grado di creare economie di scala per gli stessi imprenditori.
Più in generale, si chiedeva un’ampia sburocratizzazione e uno snellimento dei processi amministrativi. Di fatto, l’insieme delle proposte sindacali costituiva una vera e propria politica della “mano tesa” verso la controparte datoriale. La Uil, la Cisl e la Cgil si impegnavano, con le loro organizzazioni di categoria, in un esercizio di concertazione, affidando al ministro Mancini l’impegno di provvedere alla rapida approvazione della legge urbanistica e dei piani regolatori delle grandi città, insieme al coordinamento degli organismi e delle istituzioni, sempre più numerose, delegate alla realizzazione di politiche abitative rispondenti alle esigenze della popolazione.
A questo quadro, dichiaratamente collaborativo, si opponeva la cosiddetta “destra economica”, nella quale si riconoscevano non pochi palazzinari. La politica del muso duro era la loro prassi, temendo che i governi di centro-sinistra, peraltro già blandi e molto oculati nelle loro decisioni, potessero ledere gli interessi corporativi su cui una parte dell’imprenditoria era gelosamente ripiegata.
Claudio Vercelli