La fine degli anni Sessanta tra crescita incontrollata, abusi e sanatorie

La fine degli anni Sessanta tra crescita incontrollata, abusi e sanatorie

La fine degli anni Sessanta fu segnata dai molteplici conflitti che attraversavano la società italiana. Alcuni dei punti nodali delle tensioni rimanevano il circuito edilizio nel suo complesso, il diritto all'abitazione e la costruzione di infrastrutture pubbliche che colmassero lo storico divario che intercorreva tra il nostro Paese e le altre nazioni continentali, soprattutto quelle dell'Europa settentrionale.
Che l'edilizia fosse un campo di battaglia tra interessi contrapposti era chiaro a molti. Intorno e all'interno di essa si addensavano calcoli non solo di ordine economico ma anche di natura politica.

La fine degli anni Sessanta fu segnata dai molteplici conflitti che attraversavano la società italiana. Alcuni dei punti nodali delle tensioni rimanevano il circuito edilizio nel suo complesso, il diritto all’abitazione e la costruzione di infrastrutture pubbliche che colmassero lo storico divario che intercorreva tra il nostro Paese e le altre nazioni continentali, soprattutto quelle dell’Europa settentrionale.
Che l’edilizia fosse un campo di battaglia tra interessi contrapposti era chiaro a molti. Intorno e all’interno di essa si addensavano calcoli non solo di ordine economico ma anche di natura politica.

La fine degli anni Sessanta tra crescita incontrollata, abusi e sanatorie

La fine degli anni Sessanta fu segnata dai molteplici conflitti che attraversavano la società italiana. Alcuni dei punti nodali delle tensioni rimanevano il circuito edilizio nel suo complesso, il diritto all’abitazione e la costruzione di infrastrutture pubbliche che colmassero lo storico divario che intercorreva tra il nostro Paese e le altre nazioni continentali, soprattutto quelle dell’Europa settentrionale.
Che l’edilizia fosse un campo di battaglia tra interessi contrapposti era chiaro a molti. Intorno e all’interno di essa si addensavano calcoli non solo di ordine economico ma anche di natura politica.
Esisteva una vera e propria lobby delle costruzioni, capace di condizionare pesantemente gli equilibri politici in senso moderato se non conservatore. La Democrazia cristiana raccoglieva un cospicuo numero di simpatie, essendo considerata la forza politica il cui compito più importante era quello di fermare l’«avanzata dei rossi », ovvero il crescente consenso elettorale che i partiti della sinistra andavano raccogliendo.
Più che il concreto timore di una assai improbabile rivoluzione filosovietica, gli industriali edili vedevano con crescente disagio la forza di rivendicazione che le maestranze andavano esprimendo, nonché l’ispirazione riformista dei partiti legati ai lavoratori. Nella lotta tra capitale e lavoro, lo spostamento del baricentro a favore del secondo era quindi vissuto come una minaccia che avrebbe potuto pregiudicare un sistema oliato e rodato di interessi, estremamente lucroso, che la controparte padronale non intendeva in alcun modo condividere con altri.
La Feneal, per parte sua, registrava con preoccupazione i clamorosi ritardi dell’intervento dello Stato, del legislatore e della Pubblica amministrazione nel mettere mano agli squilibri territoriali che attraversavano l’intera Penisola, ed in particolare il Mezzogiorno d’Italia. Mentre i governi rivelavano, alla resa dei conti, un atteggiamento attendista rispetto all’applicazione delle norme che il Parlamento licenziava, il medesimo – soprattutto quando si costituivano in aula maggioranze orientate verso destra, con l’intervento di supporto dei missini, il partito neofascista, e dei liberali – metteva di frequente il bastone tra le ruote dell’Esecutivo.
L’effetto era quello di una paralisi reciproca e di uno svuotamento della residua carica innovativa del centro-sinistra. L’inerzia subentrava così come l’unico orizzonte dell’azione politica. Già l’allora Partito socialista, architrave del progetto riformista, aveva denunciato ripetutamente come «l’inefficienza dell’intervento pubblico diretto, insieme a tante altre cause, ha determinato, per precisa volontà dei grandi gruppi privati speculatori che hanno dominato il settore, un tipo di edilizia “di lusso”, che ha provocato un effetto dimostrativo non più evitabile ed ha spinto la popolazione ad accollarsi il peso di destinare una parte rilevante del reddito della famiglia all’abitazione, o ha costretto larghi strati della popolazione ad usufruire di abitazioni insufficienti e inumane.
È necessario porre fine a questo stato di cose con una nuova legislazione che affronti il problema della casa nel quadro della politica di piano». A ciò, ossia alla mancanza di case per gli italiani che non fossero di condizione agiata, si aggiungeva e si sovrapponeva la speculazione edilizia e urbanistica che già uno studioso come Antonio Cederna, dalle pagine del settimanale «il Mondo» e del «Corriere della Sera», denunciava come il tratto portante dell’affarismo in campo edile e dello stravolgimento dei tentativo legislativi di porre ordine e freni al settore. Per il quale, malgrado le tentate (e abortite) riforme del decennio, valeva ancora un codice giuridico arcaico, volutamente anacronistico, fatto su misura per tutelare le corporazioni. Il sistema delle lottizzazioni, che già la Legge Sullo dei primi anni Sessanta avrebbe dovuto spezzare, mandava a monte ogni tentativo di introdurre nuovi piani regolatori, permettendo lo scempio e la devastazione delle tante riserve naturali di cui era dotato il Paese. Non di meno, il circuito dei sovraprofitti da speculazione permetteva che il plusvalore dei terreni creato dalla comunità non andasse a finire nelle casse pubbliche ma venisse incamerato in quelle private.
A questo quadro si aggiungeva poi il fatto che il valore delle aree fabbricabili, nelle zone urbane, ed in particolare in città in rapida espansione come Milano, Torino, Roma e Napoli, era cresciuto in una decina d’anni di una misura al limite dell’impensabile, spesso decuplicando. Un elemento, quest’ultimo, che faceva sì che la ricchezza speculativa raggiungesse livelli impensabili, a danno ovviamente della collettività. A ciò si sarebbe dovuto rispondere energicamente, con l’esproprio a prezzo agricolo delle aree da edificare, l’urbanizzazione a carico degli enti locali e la cessione a titolo oneroso del diritto di superficie ai privati. Tutte scelte che, invece, ci si era ben guardati dal compiere. Significative rimangono le parole di Cederna su Roma, quando constatava, con espressioni sferzanti, che è «la città costruita secondo un unico principio: il lucro immediato dei padroni del suolo e lo sfruttamento di ogni metro quadrato, così da produrre la completa paralisi del traffico; una città senza aule scolastiche né letti di ospedale né biblioteche, l’ultima capitale del mondo in fatto di verde pubblico e di spazi naturali attrezzati per la pubblica ricreazione, coi suoi nuovi quartieri che sono la vergogna d’Europa; la città omicida costruita nel disprezzo per le norme elementari dell’urbanistica moderna e per le elementari necessità della vita associata, abbandonata come una carogna al sole al saccheggio degli speculatori; ecco il frutto della politica seguita in questi ultimi quindi anni dalla coalizione dei liberali, dei fascisti e clericali, ecco il tipo di città che le stesse forze vorrebbero perpetuare, lottando contro ogni proposta di sostanziale riforma».
Lo strumento della lottizzazione, ossia della frammentazione di un territorio altrimenti continuo, con l’obiettivo di ricavarne porzioni individuali, separate tra loro (sia dal punto di vista giuridico, sotto il profilo della proprietà, sia dal punto di vista amministrativo, per quello che concerne l’accatastamento), imperversava al di là e al di fuori di qualsiasi norma e logica. Non servendo per colmare il fabbisogno reale di abitazioni e servizi, e proliferando in deroga a qualsiasi principio di interesse generale. Non a caso le zone investite dal frazionamento erano quelle a maggiore densità abitativa (ed in particolare il triangolo industriale del Nord-ovest, l’ampia pianura veneta, il gigantesco comprensorio compreso tra Roma e Napoli) così come quelle più pregiate da un punto di vista paesaggistico, a partire dalle coste.
Di fatto i lottizzatori, che si affiancavano ai palazzinari nelle grandi città, non erano neanche degli imprenditori bensì dei semplici mercanti di terreni. L’utilizzazione del suolo e la localizzazione delle costruzioni ubbidiva esclusivamente a imperativi di ordine speculativo, lasciando poi l’edificato al suo destino, in assenza di servizi e infrastrutture i cui oneri ricadevano esclusivamente sulle finanze dei comuni.
L’interesse per l’avanzamento delle opere si esauriva quando la maggioranza dei lotti circostanti risultava venduta, essendo stata quindi intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario. L’autonomia degli enti locali, che erano chiamati a provvedere alla gestione del territorio, era poi vincolata dalle pressioni dei gruppi di interesse privato che, frequentemente, venivano sostenuti nella loro azione dall’intervento degli apparati pubblici, dell’autorità prefettizia e dalle sentenze censorie della magistratura amministrativa. L’introduzione nel 1967 da parte dell’allora ministro ai Lavori pubblici Giacomo Mancini di una «legge-ponte», a seguito degli eventi luttuosi di Agrigento, Firenze, Venezia, come delle frane e delle alluvioni in Veneto, aveva quindi costituito una sorta di atto-tampone. Nel suo dispositivo cercava infatti di limitare le possibilità di edificazione nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (di fatto nove su dieci), incentivando quindi la definizione di piani regolatori.
Laddove questi ultimi non fossero stati introdotti e approvati, si faceva divieto di ricorso alla lottizzazione dei terreni, accollando ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, allacciamenti alla corrente idrica ed alla rete elettrica) e parte di quelle per l’urbanizzazione secondaria (l’insieme delle opere di valore sociale, come le scuole).
Per gli enti locali inadempienti era previsto l’intervento sostitutivo dello Stato. Per le illegittimità e gli abusi edilizi si introducevano sanzioni pesanti. Venivano poi definiti degli «standard urbanistici» omogenei, a partire dalle quantità minime di spazio che ogni piano urbanistico avrebbe dovuto inderogabilmente riservare alla destinazione pubblica, così come le distanze minime da osservare nell’edificazione ai lati delle strade. Ne derivava che, in linea di principio, ogni cittadino italiano avesse diritto ad uno spazio pubblico minimo di almeno diciotto metri quadrati ripartiti, secondo il decreto ministeriale che nell’aprile del 1968 dava corso alle norme, in quattro metri e mezzo di aree a fini educativi, due metri per finalità di interesse comune (sanitarie, culturali, assistenziali e così via), nove di verde pubblico e ricreazione, due e mezzo di parcheggio.
Tutto a posto? Neanche per sogno. Malgrado lo sforzo di Mancini, durante il dibattito parlamentare che aveva accompagnato l’iter di approvazione della legge, per evitare che l’attività edilizia venisse “disincentivata” fu fatto passare un emendamento capestro, che rinviava di un anno l’approvazione dell’intero dispositivo restrittivo delle norme. Ciò comportò che in quel breve lasso di tempo gli uffici tecnici e le commissioni edilizie venissero inondate di richieste di licenze. Nell’anno di moratoria, in buona sostanza, furono rilasciate concessioni edilizie per otto milioni e mezzo di vani residenziali, il triplo dell’abituale media annuale degli anni precedenti. Fatta la legge, trovato l’inganno.

Claudio Vercelli